Ridendo e scherzando i Subsignal sono arrivati al loro quarto album. A un po’ tutti sembrerà un nome strano eppure sono una band che ha effettivamente ridefinito suoni e melodie del prog-rock (a tratti anche un po’ metal) più tipicamente melodico e oggi lo rappresentano nella sua accezione più vera e sincera. E continuano a farlo anche con questo “The Beacons of Somewhere Sometime”, pur con tutte le considerazioni da fare sul caso.

Soffermandosi proprio sull’aspetto prettamente melodico dico che ad ogni uscita di questa band resto sempre abbastanza tranquillo; essa include a mio avviso quella che io definisco addirittura la miglior accoppiata chitarra e voce oggi in circolazione sotto l’aspetto melodico, almeno in questo ambito. Il tocco di Markus Steffen è raffinato, delicato ma dal sound brillante e solare, allo stesso modo tagliente e affilato nelle sporadiche incursioni metal ma senza risultare oscuro; in questo disco lo si sente sovente insistere con brillanti passaggi acustici, da sempre presenti nel suo bagaglio ma mai come ora; inserimenti acustici molto classicheggianti o persino vagamente prossimi al flamenco che si rivelano in effetti un piatto forte all’interno dell’album. Sempre brillante ed evocativa la voce di Arno Menses, ancora una volta efficiente veicolo di emozioni. Insieme i due regalano pezzi degni della loro abilità nella produzione di melodie estremamente efficaci: citiamo subito “Tempest”, i cui arpeggi iniziali e la sfumata finale potrebbero subito riportare alla mente “Leave The Past Behind” dei Fates Warning; “A Time Out of Joint” la cui spigolosa intro ci rimanda chiaramente ai Sieges Even e in particolare a “The Weight; la brillante ed estremamente orecchiabile “Ashes of Summer”, un hard-pop davvero ben confezionato e di classe, con un ritornello che si stampa nella testa quasi come un tormentone estivo (citando ancora i Fates Warning questa mi ha fatto subito venire in mente “Face The Fear”); la soffice ballad “A Myth Written on Water”, dove le finezze acustiche raggiungono il massimo della loro emozionalità; “Everything Is Lost” dove parti acustiche e parti metalliche si fondono alla perfezione sorrette da una melodia ancora una volta brillante… come se un chitarrista di flamenco e un chitarrista metal scegliessero di duettare assieme ma presentandosi entrambi in una versione più soft dei rispettivi generi.

Stavolta abbiamo nel lotto pure un’omonima suite di 23 minuti suddivisa però in 4 tracce distinte; qui abbiamo soltanto una riconferma di ciò che sentiamo ma senza che vi venga aggiunto nulla di più; essenzialmente possiamo dire che quello che doveva essere il piatto forte è invece un piatto normale, doveva essere la torta e invece è un normale piatto di pasta.

L’album però ha un difetto: delude per quanto riguarda l’utilizzo di tastiere e suoni vari; già “Paraìso” non era proprio ispiratissimo sotto questo aspetto ma ora il cambio di tastierista ha reso il tutto ancora più “ordinario”; l’unico brano in cui si assiste anche ad una sperimentazione di suoni è “And The Rain Will Wash It All Away”, con quei pesanti suoni elettronici che si sposano benissimo con il metal moderato delle chitarre conferendo al brano un aspetto quasi “industrial”. Spero un giorno torni la maggior spregiudicatezza sonora dei primi due album ma può darsi che qui vi fosse l’esigenza di realizzare un disco più “raffinato” (come ulteriormente dimostrato dal flauto che caratterizza il brano introduttivo “The Calm” o alcune parti di sax) e la cosa è pure apprezzabile (parafrasando un noto proverbio… non tutti i difetti vengono per nuocere).

Ma a parte questo neo non possiamo che ritenerci soddisfatti da questa quarta uscita dei tedeschi. Ancora una volta hanno fatto le cose per bene e si sono guadagnati nella mia classifica del 2015 una posizione sicuramente di rilievo. Peccato che il loro successo sembri rimanere troppo confinato alla sola patria (dove continuano a concentrare i propri tour), ma tempo al tempo e magari il resto del mondo si accorgerà di loro e delle loro melodie.

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