Questa non è una storia che narra di purezza o verginità.
I Sum 41 ad un occhio severo se la sono giocati fin dai primi vagiti nel mondo musicale con quella tremenda copertina annata 2001, i video in piscina, il gossip spicciolo made in Cairo editore e la partecipazione alla colonna sonora di American Pie.

La cultura pop li derubrica in maniera spedita alla voce revival punk inserendoli nello stesso scaffale di Green Day e Blink-182. Eppure va detto che nel corso degli anni da quel “Does This Look Infected?” in poi i quattro dell'Ontario sembrano aver fatto di tutto per staccarsi da quel filone e provare a ripulire la propria immagine con un sound più maturo e meno incline alle facilonerie.
E “Chuck” in tal senso rimane l'episodio più ispirato della loro discografia.

“13 Voices” è l'epilogo di un lungo periodo fatto di pause continue e rinvii causati principalmente dalla riabilitazione dovuto ai seri problemi di alcool del cantante Derick Whibley e dall'abbandono dello storico batterista Steve Jocz.

Nel frattempo vi è stato in il ritorno all'ovile dell'altrettanto chitarrista Dave Baksh e l'ingresso di Frank Zummo che prende il posto di Steve dietro grancassa e rullante.

Il sound può essere descritto come l'incrocio tra “Does This Look Infected?” e l'ultimo “Screaming Bloody Murder”.
Con un risultato che legandosi anche alle liriche (espressione del momento personale di Derick) continua ad essere vigoroso e a tratti cupo vedere “Fake Own Death” tra strofe tese che sembrano composte dagli Strung Out e refrain potente a presa rapida.

Non mancano un paio di lenti che in alcuni casi abbassano la media del disco (“War” tentativo fallito di replicare una nuova “Pieces” o “Breaking The Chain” solo discreta che si gioca la carta emozionale con i violini e ricorda qualcosa dei Linkin Park), nonostante l'episodio finale “Twisted by Design” tra tutte con quelle incursioni delle tastiere sia la più riuscita.

Nel mezzo qualche pezzo scialbo come “God Save Us All (Death to Pop)” che viene però bilanciato dalla title-track e dalla veloce “Goodamn I'm Dead Again” che si conclude in maniera pirotecnica con un assolo del rientrante Baksh.

Il passaggio ad un'etichetta non major come la Hopeless non ha inciso sulla produzione che rimane potente, ma sempre molto pulita. Lo so che in fondo speravate di leggere tra le righe il nome di Steve Albini come pretesto per fiondarvi ad ascoltarlo, ma devo devo deludervi.

I Sum 41 sono un po' come quell'alunno discolo presente in ogni classe che ne combina di cotte e di crude, messo perennemente in castigo e dietro la lavagna per buona parte delle lezioni.
Un alunno che si è fatto ormai la nomina collezionando richiami verbali e note sul registro e che possibilmente viene incolpato anche quando non centra niente o si impegni più di quanto ci si aspetti nonostante i suoi limiti.

Il contesto dall'inizio di quella storia oggi è cambiato ed il dizionario si è aggiornato insieme al pubblico e ai suoi gusti. I tempi delle faide su quanto possano essere vergini i cinque sono andati.

Quello che in fondo rimane è solo un altro disco. Più che la fiducia o la purezza a prevalere qui sono la nostalgia, la curiosità e la noia.
















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