Una forma di meditazione. L'imbarazzo del tempo informe.

Ti giri e vedi le facce dilaniate della gente, immobili come statue, pietrificate.

Sul palco, tra i fumi, sacerdoti neri che alzano il braccio e lo calano come una mannaia sulle chitarre. Provocando il nostro dolore. Lentamente.

Noia solo apparente, noia che fa bene. Stimola il cervello a lavorare meglio. Richiede uno sforzo per capire. Ma capire si può, e ha una sua ricompensa.

Nelle due ore di caos infernale, il cervello va in fiamme, come un motore che s'è sforzato troppo, mentre gela il corpo, moribondo in quella paralisi oscena. Vibrano le viscere, le sento vibrare. E mi sento penetrare fisicamente dal suono. Giù per la gola, scavando nei timpani.

Prudono le orecchie, ansimano le sinapsi per raggiungere la dimensione altra di questa musica. Aliena, differente. Senza ritmo, senza forma? No, ritmo e forma più grandi. Devi allargare l'alveo del tuoi pensieri per farci scorrere questo fiume.

Potrebbe essere durato un minuto o un millennio. Non sai dire quante canzoni, forse tre. Nei ricordi è subito un guazzabuglio indistinto di visioni siderali. Non hai la forza di serbare in te un cataclisma così gigantesco.

Lo subisci, ti ci perdi dentro. Anneghi.

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