Parte da qui una triade di recensioni monotematiche, brevi (spero) perché i tre contributi finali alla discografia Supertramp sono senz’altro più che decenti e piacevoli, na allo stesso tempo insoddisfacenti se messi in relazione con quelli precedenti, quindi meglio non starci troppo sopra a lambiccare.
I Super hanno pubblicato undici dischi registrati in studio, effettivamente divisibili in tre fasi:
_Gli inizi, la gavetta: due dischi scorrevoli ma senza lampi di genio, 1970 e 1971
_Il raggiungimento del proprio stile, e del successo: cinque dischi splendidi, due di essi capolavori, dal 1974 al 1982
_Il declino, la sopravvivenza: quattro dischi dignitosi ma sostanzialmente soprassedibili, dal 1984 al 2002
Il secondo lavoro di quest’ultima fase eccolo qui: siamo nel 1987 ed il cantante e pianista Rick Davies è da qualche anno rimasto solo al comando delle operazioni, a valle dell’abbandono del suo alter ego Roger Hodgson (chitarra e piano). Non è però solo la fruttuosa alternanza fra le due diverse voci, i due diversi stili dei sunnominati a mancare qui… gli è proprio che l’ispirazione è debole, le idee annacquate. Vi è gradevolezza, intrattenimento ma nulla di epocale in episodi come ad esempio l’iniziale “It’s Alright”, quasi una mazurca, scoppiettante ma poco memorabile.
Migliore è allora “Not the Moment” che possiede una sua piccola solennità nel lungo sviluppo della melodia, con il modo che prende continuamente a ondeggiare fra il maggiore e il minore e con un suggestivo sax tenore. Ma sarebbe stata nient’altro altro che un valido riempitivo nei dischi dell’epoca d’oro.
“It Doesn’t Matter” inizia bene col saltellare argentino del pianoforte, ma poi si ingrigisce in un cantato greve e senza spunti, stancando alla prima svolta di ritornello e a nulla valgono i falsetti alla Bee Gees dello stesso Davies che sopraggiungono dalla metà in poi.
In “Where I Stand”, ed anche in “Free ad a Bird” la title track, appare evidente l’inadeguatezza della seconda voce scelta da Davies per sopperire all’assenza di Hodgson: il nuovo chitarrista Mark Hart non ha la statura vocale per ricreare quella fertile diarchia con Hodgson.
Il soft jazz convertito a dance permea l’agile “I’m Begging’ You”, sgonfiata però da una melodia banale, ottantiana nel senso deplorevole del termine, mentre è il rhythm&blues a dire senza infamia e senza lode la sua sia su “You Never Can Tell With Friends” che sulla più notturna “Thing for You”.
La finale “An Awful Thing to Waste” si estende fino a quasi otto minuti, grazie a lunghi preamboli voce/piano all’inizio, vagamente alla Queen, seguiti da un groove electro dance infiorettato da percussioni, chiacchiere, melodie competenti ma non ingegnose, fino ad un poco incisivo solo di chitarra a sfumare.
Il mio giudizio su questo e gli altri dischi terminali dei Supertramp è quello del profondo estimatore, ma non del delirante adoratore per partito preso di tutto ciò che è stato prodotto da questa band, la quale in effetti ci ha lasciato diverse pagine entusiasmanti insieme ad altre non avvicinabili a quella grandezza.
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