Siamo all’episodio finale della saga Supertramp, col quale il gruppo scavalla il millennio rilasciando l’ultimo, incerto contributo artistico. Come già illustrato nella rece del precedente disco uscito un lustro prima (qui siamo nel 2002), ormai la formazione è diventata un grosso combo (due tastieristi, due chitarristi, due fiatisti, coriste dal vivo) preda delle voglie blue-eyed soul del suo leader; il quale anche in quest’ultima occasione ha ulteriore agio nello spersonalizzare le caratteristiche peculiari, uniche dei Supertramp storici e far arretrare la band a mera realtà di rhythm&blues “moderno”, ad andamento lento, professionalmente impeccabile ma tematicamente modesto.

Le cose andavano meglio dal vivo se non altro in quegli ultimi tempi: il fatto che sul palco operasse una buona decina di musicisti dava alla riproposizione del vecchio repertorio quella pienezza, completezza, orchestralità che per lunghi anni i cinque originari componenti della band non erano mai riusciti a raggiungere. I Super infatti non sono certo passati alla storia come live band… niente a che vedere con gente come Deep Purple, Tubes, Ac-Dc… Le loro arrangiatissime e soppesatissime creazioni in studio, piene di tante voci, tastiere, chitarre e percussioni, erano impossibili da replicare on stage colla stessa efficacia restando in quintetto. Non per caso la storia di questo gruppo, per quanto riguarda i soli concerti, si è prolungata fino al 2016, sostanzialmente esaurendosi a causa dei problemi di salute di Rick Davies, al quale è toccato in sorte il solito cancro da qualche parte del suo organismo, ma insomma gli ottant’anni ora se li è comunque passati… Tanti auguri!

Ma veniamo all’album in oggetto: la traccia eponima di partenza regge bene, è un lento in stile Supertramp lato Davies, né più ne meno, col tenore di Helliwell che dipinge nel finale. Purtroppo si ripiomba subito nel r&b sterile colla seconda, la terza, la quarta, le ultime due quasi irritanti nella loro prevedibilità. Si arriva quindi a “Tenth Avenue Breakdown” il pezzo forte centrale, nove eccessivi minuti dei quali si salva il bel riff sospeso di pianoforte che intercala le lunghe fasi di groove jazz rock povero di melodia. La chitarra virtuosa di Carl Verheyen combina qualcosa ma non molto. Piacevole più in là “A Sting in the Wall” che inizia a ninna nanna ma poi si sveglia, introduce la caratteristica, evocativa armonica Supertramp e si dilunga in un buon duetto trombone/sax. “Bee in Your Bonnet” ribadisce l’andamento lento, cadenzato, soporifero della fase adulta decisamente poco rock del buon Rick Davies: l’ennesimo trascurabile r&b senza speranza di restare in testa neanche a risentirselo per cinque volte filate. “Goldrush” è allegra e sfavillante, pecca della solita immemorabilità ma almeno è corta. La finale “Dead Man’s Blues” al contrario senza nessuna giustificazione dura oltre gli otto minuti, ed è un blues canonico senza il minimo guizzo di personalità, eterizzato da assoli jazz di piano, sax, tromba, il tutto professionale ma tedioso come sa essere il jazz quando è solo jazz. Un mesto finale per questa band così centrata, peculiare, tenera, riconoscibile all’istante ai bei tempi…

Amen! (in latino). Bona! (in bolognese). Pacce! (ił papa). Fine! (Fellini). Tre stelle! (Debaser). Adios! (Tex Willer).

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