Penultimo atto della discografia Supertramp. Siamo nel 1997 e il gruppo dopo qualche anno di sbandamento si ricompatta, con alcune facce nuove, intorno al pianista cantante e compositore Rick Davies. Perso ormai da tempo il treno per continuare a stare fra i grandissimi del pop rock, la formazione si accontenta di assecondare le voglie adulte del leader, sempre oscillanti fra jazz blues, vocine ironiche in falsetto, elegante e ritmico accompagnamento pianistico. Ora però emerge un ulteriore restringimento della peculiarità della banda, già fortemente menomata dall’abbandono di Roger Hodgson tanti anni prima.

Ne è simbolo l’iniziale, interminabile (dieci minuti) “It’s a Hard World” dove tutte le voglie jazz e soul di Davies vengono sfogate in un esteso, notturno vagabondaggio rhythm&blues di classe indubbiamente sopraffina, ma purtroppo privo di consistenza tematica e quindi adeguata accessibilità.

Si sente bene che l’album è più accurato dei precedenti… gran suoni e bel groove strumentale coi nuovi musicisti che sono assai migliori di quelli che non ci sono più. Ad esempio il fresco acquisto alla chitarra Carl Verheyen è un musicista da sballo, anche se qui è sotto impiegato. Però nel genere musicale e nel modo di comporre si è scivolati verso lo scolastico, lo standardizzato, l’immemorabile senza speranza. Il disco suona perciò benissimo, intrattiene, ma i veri Supertramp erano altro: portavano melodie imprevedibili e trancianti, sequenze di accordi sorprendenti, riff di pianoforte scolpiti e sublimi… Davies prende qui ad essere una specie di Ray Charles dei poveri, bravo e appassionato quanto superfluo, con questa regressione verso i suoi maestri neri che appare tanto rispettosa e adeguata quanto inutile, anzi dannosa perché sull’altro piatto della bilancia va a farsi fottere la specificità dei Supertramp, persa per strada quasi del tutto.

Per esempio la canzone eponima dell’album gode di una gustosa chitarra funky e un succoso doppio assolo, prima di piano misto acustico/elettrico e poi di fiati rimisto trombone/sax ma… così sembrano gli Steely Dan! E l’attacco di “Sooner or Later” richiama quello di “Billy Jean” di Michael Jackson, cacchio. E’ proprio rhythm&blues amerragano, altro che progressive pop inglese. Del resto più della metà dei musici in azione è made in USA, paese dove d’altronde i Super risiedono da più di vent’anni.

Help Me Down That Road” è allora un boogie blues scolasticissimo… aiuto! La migliore melodicamente alla fine risulta essere “Give Me a Chance”, cantata (modestamente) dal chitarrista australiano (ecco…) Mark Hart, il quale sarà pure quello dei Crowded House ma ad Hodgson non gli allaccia neanche le scarpe, o i pantaloni. Però almeno è guarnita di un coro pop arioso e memorabile, merce rara in questi tardi Supertramp.

Tutto il contrario di “C’Est What?”, una presa in giro della (stupenda) “C’Est Le Bon” di Hodgson di quindici anni prima (album “Famous Last Words”): il solito groove su di un unico accordo… sembrano i Traffic (più svegli) cacchio, non si può! Bello, ma non c’è più niente dei Super. Nemmeno in chiusura con l’intensa “Where There’s a Will”, che ci porta compiutamente dalle parti di Billy Joel quando a sua volta corre dietro a Ray Charles. Ci sono pure i cori gospel: grande, ma i Supertramp? Cambiare è giusto, ma non involvendosi e tornando ai padri e ai nonni del blues.

Suonato e prodotto benissimo, con Davies che canta bene, felice com’è di regredire alle sue origini da ragazzo, coi fiati dappertutto alla newyorchese, con sempre quattro accordi in croce, tutto groove e poca melodia… Questo lavoro meriterebbe quattro stelle piene, se solo fosse il disco di una nuova formazione di jazz blues classico statunitense. Ma è il decimo dei mitici Super ed allora paragonato a “Crime of the Century” se ne meriterebbe due a stento… Facciamo tre quindi.

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