E' estate. Ho diciotto anni, forse diciannove. Abbigliato mezzo freak e mezzo wave, i capelli lunghissimi e ricciuti e un vampiresco pallore comprensivo di sguardo sperduto, mi avvicino al juke box. Metto la monetina e parte il riff definitivo. La cosa strana è che è un pezzo vecchio di dieci anni , “Children of the revolution” dei T.Rex. Chissà cosa ci fa in mezzo ai successi del momento, roba tipo “Caffé nero bollente” e chissà cos'altro ancora.

Comunque si, diciotto anni, forse diciannove. E, che ci crediate o no, son quasi figo. Così una specie di fanciulla uccellino, un frugoletto di massimo dodici anni, mi avvicina col cuore in gola, mentre le amichette la osservano da lontano...“Ma perché ascolti sempre questa canzone?”.

Avvolto da una nuvola di cannabis, mi ci vuole un attimo per rendermi conto. “Come?”, le faccio, cacciando fuori il mio miglior sorriso. “Perché ascolti sempre questa canzone?”, mi ripete. “Ma come perché, questo è Marc Bolan, il danzatore cosmico”. “E che vuol dire?” “Hai presente una specie di cielo finto che sembra vero, ecco quello vuol dire”. Ah signori, la parte del poeta da due soldi mi è sempre venuta benissimo. E anche quella del cazzone. Così, decidendo che la mia piccola innamoratina si merita qualcosa di più, improvviso due passi di una danza più scema che cosmica e, prima di raggiungere i miei amici, le mando di nascosto un piccolo bacio.

(Il danzatore cosmico)...Tra leggerezza, volo e polvere di stelle. Una cosa tipo “potrei costruire la mia casa sull'oceano, ma non importa la vita è un soffio, oppure un gas”. E, certo, voi portate la croce e io una piuma...

Marc Bolan aveva (o fingeva di avere) un candore quasi soprannaturale ed era dotato dell'incredibile capacità di immedesimarsi totalmente in ogni più piccolo parto della sua immaginazione. “Io sono la mia stessa fantasia”, diceva, traslocando di continuo da uno spazio di illusione all'altro.

E' stato molte cose. (Uno) Il dandy dei sobborghi che finisce dapprima in una specie di altroquando tolkeniano, scapricciandosi tra tamburi del bosco e gridolini elfici. (Due) Il mago etereo tra psichedeliche figurine di vetro e magie quasi alla “Hunky Dory”. (Tre) L'inaspettato rocker che inspessisce con una elettrica nervosa il suo bizzarro e fragile mondo rendendo il tutto, se possibile, ancora più strano (Quattro) La faccenda chiamata T. Rexctasy, ovvero il giovane dio che si inventa una specie di mezzo boogie languido e sensuale e altri numeri tipo un magrissimo hard rock e dolcissime ballate da urlo dove l'ambiguità sembra quasi una ragion d'essere se non fosse che il danzatore cosmico di ragion d'essere, giustamente, non ha alcun bisogno. Quella è roba per noi che strisciamo.

Aveva una voce incredibile: una specie di miagolio vibrante, fate conto, tutto grazia apollinea e aerea leggerezza. Qualcosa, direi, di quasi trascendente e, nei momenti migliori del periodo Tirannosaurus, addirittura magico. A quell'epoca il nostro era un mod che si “fingeva” hippy e cantava insensate filastrocche dalla sorprendente qualità ritmica, un guazzabuglio di formule magiche scandite in elfico stretto. Il suo porsi, languido e sbarazzino, oltre che stranamente infantile e appena appena lezioso, era la rappresentazione della più perfetta innocenza, non importa se vera o finta. Qualcosa come stare davanti alla tivù dei ragazzi nella fase che precede la tempesta ormonale. La tempesta poi verrà, ovviamente, e si chiamerà T.Rex. Ma anche quando a farla da padrone sarà la sensualità più esplicita rimarrà sempre qualcosa del giardino d'infanzia.

La T.Rexctasy: sei/sette singoli (e tre album) di pura luce pop e di impressionante, esplosiva gioia; tutti i retaggi freak trasformati in piccole sfere colorate e in un abc rock'n'roll liberatorio come in pochi altri casi. Insomma il piccolo Frodo che indossa la giacca d'argento e si trasforma in un rocker leggerissimo e immateriale. Il tutto non dura che un attimo come è giusto che sia per tutte le cose troppo belle. Del resto, lo abbiamo già detto: “potrei costruire la mia casa sull'oceano, ma non importa la vita è un soffio, oppure un gas”. E, certo, voi portate la croce e io una piuma.

“Children of the revolution” ha un riff imperioso eppure in qualche modo tremolante e come fuori giri. E' attraversata da archi spiritati dal vago sapore di medio oriente e da perfetti coretti iper dolciastri in magico contrasto con la ruvidezza hard. Ma soprattutto è uno di quei pezzi che funzionano piuttosto bene quando ci si sente sente di merda.

Ah, io e il frugoletto di massimo dodici anni abbiamo continuato a vivere nella stessa città. Ogni tanto ci incontriamo e quel che facciamo è soltanto sorriderci. Del resto il ricordo di quell'attimo è talmente prezioso che sprecarlo in parole davvero non vale la pena. Trallallà...

Ps...Alcune suggestioni le ho prese da “Polvere di stelle” il bellissimo libro sul glam scritto da Simon Reynolds. I debiti, a volte, è giusto pagarli.

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