“Dischi dell’estate”

Per anni ho odiato l’estate: il caldo afoso, il mare davanti ma la prima spiaggia decente a 20 minuti di auto/motorino, l’impossibilita psicofisica di approcciarsi a qualsiasi azione ma anche pensiero che esuli dagli impulsi primari (dormire, mangiare, cagare, di norma), l’apatia fomentata dalla pigrizia cronica, quelle immonde bestie chiamate zanzare. Cose che continuo a mal sopportare in verità, ma che nascondono lati meravigliosi: l’andare in giro quasi nudi (pulsione che – viva le lotte femministe dei ’70 – condividono ed estremizzano le creature femminili), il fresco della sera, le nottate a mettere dischi per pochi e poveri malcapitati che pensano esista solo musica “da ballare” (ma a me interessano le menti e non i corpi), l’accettare supini (o proni) la propria apatia congenita.

E col tempo ho anche iniziato a legare certa musica all’estate, e certe estati a determinati dischi/canzoni. L’estate appena finita, è stata marchiata a fuoco, imprevedibilmente,  dal caldo sound dei Tame Impala. Imprevedibilmente perché l’omonimo EP dello scorso anno, che precedeva “Innerspeaker”, mi aveva lasciato alquanto perplesso. Troppo perfettamente vintage nei suoni, fra Blue Cheer e Cream - la cuspide fra garage e hard rock biennio 1968/69,- per poter emergere. Sì insomma la solita “mancanza di personalità”.

Ma i 3 ragazzotti australiani (età media intorno ai 20) si sono ravveduti, rimettendo mano al loro suono, ammantandolo di un alone psichedelico soffuso, coadiuvato dalla voce mostruosamente lennoniana del cantante Kevin Parker e da un notevole gusto per arrangiamenti mai scontati. Un viaggio in modalità phaser che parte dalla vena psicoindolente alla Revolver di “Is Not Meant To Be” e “Jeremy’s Storm”, per poi spaziare fra le scorie proto hard rock sopracitate (“Desire Be Desire Go”, la canonicamente blues “Expectation”), ma sempre condite da spezie acidule, passando per tributi al freak beat inglese meno noto fra Move, Elmer Gantry’s Velvet Opera, Tomorrow, Skip Bifferty e compagnia, inopinatamente cortocircuitati con ricordi di primo pop 80 (provocano tale strano effetto le bellissime “Solitude Is Bliss”, “Why Won’t You Make Up Your Mind” e “Alter Ego”, quest’ultima a lambire paesaggi quasi dance).

Impossibile non citare anche excursus più propriamente psichedelici, come nel reiterato e cristallino giro di chitarra di “Island Walking” o nel lungo viaggio “The Bold Arrow Of Time”.

Disco dalle mostruose capacità additive, figlio di una visione a 360° della psichedelia odierna sposata con una invidiabile scrittura “pop”. Chapeau!

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