Una lunga odissea nella spazio, quella dei Tangerine Dream. Tutto ha avuto inizio nei primi anni settanta, con le "cattedrali cosmiche" di "Alpha Centauri" e "Zeit"; poi il viaggio è proseguito a bordo di una navicella sospesa tra le galassie, con il synth al posto della cloche. Anni di sofisticate armonie elettroniche e di grandi intuizioni. Ad un certo punto infine, negli anni ottanta, il ritorno. La navicella atterrò, e l'equipaggio era pronto a narrare le visioni avute durante il lungo tragitto. Ebbe così inizio il periodo dei grandi concerti, e dei raduni sotto le stelle.

Indispensabile nel processo artistico dei Tangerine Dream fu, a mio parere, il periodo di metà anni settanta, a partire da "Phaedra". Qui il suono del gruppo vira verso sonorità meno anarchiche e più limpide. I tre componenti del gruppo, Froese, Baumann e Franke, si affidano ad un'elettronica più avvolgente e gradevole, che si muove su due linee sovrapposte: scarne basi elettroniche, coperte da tappeti di improvvisazioni strumentali melodiche. Chitarre, batterie, synth e quant'altro. Lampante è proprio l'esempio di "Ricochet" (1975): il disco è composto da due tracce di circa venti minuti, ottenute unendo diverse registrazioni live di quell'anno, soprattutto provenienti dalla serata al Fairfield Halls di Croydon, Londra.

Quello che abbiamo di fronte è una culla di immagini sonore che fluttuano sotto il cielo stellato, che crescono e si attutiscono, in maniera sinusoidale. Secondo le nuove volontà del trio, gli strumenti producono note che vengono ripetute all'infinito, uguali; su di esse vengono intarsiate dolci armonie melodiche, che a tratti esplodono in crescendo repentini di magma sonoro. Ma qui l'odore della vecchia psichedelia cosmica di "Alpha Centauri" fa capolino raramente, l'impostazione è completamente nuova: la scia seguita è quella dell'elettronica cólta ma accessibile, tipica del periodo. Tanto per intenderci, prendete Jean-Michel Jarre, ma elevatelo all'ennesima potenza. Pensate a "Clic" di Battiato, ma meno spigoloso. Questa musica non sfocia mai in sonorità patinate e fini a se stesse, al contrario esse risultano estremamente varie e complementari: eterea ambient-music, spunti quasi classici, soffi maestosi di synth, ritmi spigolosi a tratti claustrofobici, ronzii.

Ed è incredibile ritrovare qui, in questo album, tanta della musica che verrà molti anni dopo: il pop anni ottanta, la new age, la trance dei novanta, i Labradford, qualcosa dei Porcupine Tree, perfino la techno-ambient degli Underworld e l'house di Laurent Garnier. La definizione adatta per i Tangerine Dream è Capiscuola. Non c'è ombra di dubbio.

Ascoltando un disco, ognuno di noi proietta nella sua mente un piccolo film. Le immagini che associo a questo disco sono semplici e suggestive: pensate alla scena di ""2001- Odissea nello Spazio" in cui le astronavi nuotano in circolo; mettete al loro posto tanti sintetizzatori lucenti che, come satelliti, girano su se stessi. Infine, dal nulla, nel tenue buio cosmico, ecco arrivare un suono delicato di pianoforte: è l'inizio della seconda traccia del disco. L'occhio scorge una figura che si avvicina, galleggiando: è Edgar Froese, seduto sopra uno sgabello; molto lentamente, sta compiendo giri di 360 gradi insieme al pianoforte, come fossero un tutt'uno. Intorno è solo silenzio e mistero, ed è indescrivibilmente bello. In lontananza puntini luminosi come lucciole addormentate. Siamo in un angolo remoto dell'universo, sempre che questa definizione abbia un qualunque significato.

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