Gallagher, quello irlandese, quello giusto (l’altro, il mancuniano, non è poi così imprescindibile), è una religione, o quasi: gli adepti del suo culto non mollano e non molleranno mai, conquistati a vita dal personaggio particolarmente naif, cocciuto e indipendente nonché dal suo chitarrismo, il più puro e schietto che si sia mai sentito.

Questo primo disco dal vivo della sua vita, ancora sotto il monicker del primo suo gruppo importante, è un po’ sfigato, messo com’è in secondo piano dal successivo “Taste at the Isle of Wight 1970”, uscito alla fine dello stesso anno (1971) e sostenuto alla grande dalla ripresa in pellicola dell’evento. Fu questa una botta d’ispirazione, di sensibilità musicale del regista Murray Lerner, il quale a cineprese piazzate per filmare superstar come Hendrix, Who, Moody Blues, intimò agli operatori che stavano facendo prove di messa a punto dei macchinari di continuare a riprendere Rory ed i suoi fino alla fine, conquistato all’istante dal loro rock blues senza compromessi.

Ma il trio dei Taste era già in agonia a quel punto: i soliti scazzi con bassista e batterista che volevano essere considerati, artisticamente ed economicamente, alla pari del leader, mentre Rory invece li reputava meri collaboratori del suo progetto. Succederà di lì a poco la stessa cosa ai Creedence, ai Jethro, a tanti altri. A scanso di equivoci, da quel momento Gallagher provvederà ad intestarsi a suo nome i dischi pubblicati, continuando peraltro a cambiare musicisti ogni tanto, riottosi o meno.

Che dire della musica… inutile distinguere, classificare, mettere in fila i cinque brani (quattro cover) che lo costituiscono, l’album va ascoltato dall’inizio alla fine come documento, attestato, simbolo dell’uomo e del musicista Rory, attraverso quaranta minuti scarsi d’immersione nella sua peculiarissima dimensione artistica. Un mondo fatto di voce e chitarra fieramente nudi e crudi senza compromessi, sempre autentici, ruspanti, leali, franchi, onesti, semplici. Inutile farsi pippe con la bravura tecnica, il vibrato sorprendente, la slide gagliarda, il suono spietato e in faccia di una Stratocaster mandata dentro il Vox Ac30 e basta, a tutta oppure a mezzo volume, sempre con passione e trasporto esemplari, paradigmatici.

Parliamo invece della copertina, per chiudere. Ho ben stampato in mente un ricordo di gioventù con essa protagonista: ancora imberbe, me ne sto col naso appiccicato alla vetrina del negozio di musica nel Corso della mia città. Ben disposti sulla mensola in primo piano ci stanno “Fire and Water” dei Free, “Bridge Over Troubled Water” di Simon & Garfunkel e infine quest’album, il più vistoso e portato a far correre la fantasia di un ragazzino, con tutti quei capelli lunghi, quel sudore, quell’energia, quella passione. Non li conoscevo ancora e decido che siano in cinque a suonare, perché si intravede un altro chitarrista dietro al batterista e, sulla destra in alto e di sfuggita, ancora un’altra chitarra in azione. Beata innocenza, ero invece al cospetto di una “photoshoppata” anni ’70, piuttosto approssimativa ma efficace.

Chissà se era omosessuale, Gallagher. Di quelli inespressi…non è da escludere… Donne accanto a lui non se ne sono mai viste, per certo. Scapolissimo, suonava sempre e solamente, e quando non suonava… beveva, povero grande Rory col fegato a pezzi. Chissenefrega la sua situazione sessuale, ovviamente; sto recuperando senza fretta i pochi suoi dischi che ancora mi mancano e questo qui è per ora l’ultimo arrivato, l’anno scorso. Lo dovevo, a lui e a quel mio ricordo.

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