Chiedere a Terry Gilliam di essere rigoroso è come pretendere che una sfera abbia gli spigoli. E pretenderlo da un'opera sul sognatore per eccellenza, colui che sfida i mulini a vento come fossero giganti, sarebbe ulteriormente assurdo. L'uomo che uccise Don Chisciotte sarà anche a tratti sfilacciato, incompleto, disomogeneo e sbilenco, ma è un atto d'amore verso il cinema (ma di più, la letteratura, l'arte nel suo senso più autentico) che si nutre proprio di quelle asimmetrie, di quelle irregolarità che non sono comprensibili per il mondo rigoroso dei produttori, dei registi esperti e cinici, degli sponsor, che hanno i mezzi ma non capiscono realmente ciò di cui stanno parlando. Rifiutano di capire cosa sia il cinema, come un Sancho Panza di fronte ai voli pindarici del Don.

Inutile negarlo, quello che propone Gilliam è un metaforone, un parallelismo che funziona proprio perché sfilacciato, incompleto, intrecciato ad altri spunti e visioni, in modo caotico, volutamente poco nitido. Non tutto è chiaro, non tutto dev'esserlo. Il discorso di Gilliam mi pare insistere sul concetto che l'arte cinematografica non dev'essere una geometria, non dev'essere un ragionamento, ma un capriccio, una grande frottola a cui non si può credere, ma che pian piano conquista, fa capire che è più bello quel mondo lì, abborracciato, assurdo, paradossale, ma comunque più apprezzabile delle frustranti logiche del reale. Non è un'idea particolarmente innovativa, certo, si tratta del primo romanzo moderno. Ma la sua “messa in atto” è irresistibile e i rimandi attualizzanti sono davvero forti. È il momento giusto nella storia del cinema per ricordare questi assiomi artistici.

Questo film è un atto di bellezza, senza bisogno di argomentazioni che ne sanzionino il valore. Una bellezza autoevidente, materica, tangibile. Una bellezza semplice che riconcilia con la dimensione vera del cinema e del senso di narrare storie: nell'era che celebra la visione, l'immagine a tutti i costi, la storia di Don Chisciotte e Toby è fatta “soltanto” di parole (con qualche eccezione, tra visioni e sogni) che si stagliano su scenari reali, fatti di oggetti, edifici diroccati, castelli, scale, mulini e grotte. C'è pochissima computer grafica, è minimo l'intervento di post produzione sugli scenari: il magnetismo di quanto detto dai protagonisti è tale che non servono grandi oggetti e dettagli per dare credibilità. Due attori che delirano nel deserto, davanti a un castello in rovina. Non serve altro. La credibilità è massima anche perché queste vicende si fondano sull'esatto opposto, sul delirio fantasticheggiante, che non ha alcuna credibilità eppure le ha tutte, perché se le conquista un pezzettino alla volta, convincendo tutti che quel mondo è decisamente preferibile a quello che tutti conosciamo.

Lo spettatore cammina in perfetto parallelismo con il protagonista Toby, che si lascia avvinghiare dal demone immaginifico in modo lento e delicato, senza strappi. La realtà contingente bussa spesso alla sua porta, ma dopo un po' (sorprendendo anche noi che ci troviamo a vivere le stesse identiche lacerazioni e pulsioni seduti in sala) la pragmatica cede il passo alla letteratura, le fughe del Don diventano sempre più necessarie e commoventi, anche perché il mondo mostra il suo volto crudele, irrispettoso. Più il mondo lo irride, più Toby si avvicina al Don, ne comprende la nobiltà d'animo.

È clamoroso il percorso conoscitivo che lo spettatore fa insieme al protagonista. Un gettarsi tutto alle spalle, capendo che la vita senza quella scintilla folle diventa una mera prostituzione, un vendersi per ottenere qualcosina, un leccare piedi per avere “tutto ciò che si desidera”. No, tutto questo è più finto delle peregrinazioni strampalate del Don, ha un'anima d'ipocrisia pura, di quieto vivere che si sottomette alle imposizioni di chi sta sopra. Invece nelle iperboli del Don non c'è nemico che non si possa affrontare e sconfiggere.

Insomma, l'interiorizzazione del messaggio insito nel romanzo è totale, e non c'erano grandi dubbi dopo una gestazione così lunga. In un gioco di scatole cinesi e mise en abyme multiple, l'opera stessa di Gilliam è testimonianza di questa estrema libertà, questa radicale alterità rispetto alla logica funzionale. E il cineasta aggiunge una dimensione diacronica che aggiunge un'ulteriore nota polemica alla visione: il regista che da giovane metteva passione è lo stesso che dieci anni dopo non crede alle stramberie di Chisciotte.

Ma c'è di più: [in questo capoverso ci sono delle anticipazioni] il don Chisciotte che il regista incontrerà sulla sua strada e riconoscendolo come Sancho Panza è proprio quel calzolaio che lui stesso, il regista, scelse come protagonista della sua opera giovanile, su quello stesso soggetto dieci anni prima. La sua immedesimazione nel personaggio ha reso Javier un Don Chisciotte reale, perché non serve altro per esserlo. Ma oggi colui che gli ha dato la scintilla immaginifica non crede più in quella meravigliosa allucinazione. Un cortocircuito creativo per cui il personaggio sopravvive alla vena creativa del suo autore e si trova anzi a incalzarlo, nel tentativo di riportarlo in quel mondo allucinato e bellissimo. L'opera è sempre più grande e potente di chi l'ha creata.

Vita e letteratura (e cinema, che ne è una sorta di doppio) si compenetrano, si completano in modo stringente. Anche la giovane Angelica è come se non riuscisse più a uscire dalla parte, diventando una mezza puttana pur di restare nel cono di luce. Le duplicità sono continue, perché realtà e fantasia (e sogno) continuano ad alternarsi in modo clamorosamente organico. E le persone reali tornano nella narrazione fantastica, perché il Don li assorbe, oppure perché loro si offrono alla sua visione, per guarirlo, in certi casi, per riportarlo a casa o semplicemente per farne un fenomeno da baraccone. Realtà e fantasia formano un continuum, non c'è soluzione tra le due dimensioni.

Una professione di fede nell'arte come scherzo bislacco, come bischerata commovente e testarda, profondamente disperata e inevitabilmente dolorosa. Dolorosa perché quel viaggio porta a scontrarsi con gli spigoli del mondo reale che riemerge inevitabilmente. Il sogno è meraviglioso, ma poggia sulle fondamenta del mondo materico; per quanto uno possa sognare in modo sfrenato, ogni tanto un muro appare lungo il percorso, anche quello più immaginifico. Si cade, ci si fa male, si viene umiliati. Si perde, l'uomo della fantasia perde di fronte all'uomo del denaro e della contingenza. Ma ciò che ha seminato ha una fertilità impareggiabile, che gli consente di eternare il suo viaggio, di trasmettere quella vocazione a dei prosecutori. Un fallimento fragoroso, enorme, ma di successo. Il successo è dato dal non arrendersi al mondo che assedia i sogni, non è necessario vincerlo, basta resistergli. Ed è bello pensare che tutto questo discorso valga perfettamente per il buon Terry Gilliam, che s'è presentato all'alba del 2018 con un film che possiede la forza immaginifica e sognante di un esordio. Quella radicalità che non teme di picchiare forte il naso contro il muro dei fatti concreti (si legga botteghino).

Scenari meravigliosi, su cui si stagliano vaporose le storie del Don, fatte di parole al vento e capitomboli, botte in testa e cadute rovinose. Meravigliosi gli attori, che giocano un ruolo enorme in un film che costruisce tutto o quasi sulla credibilità delle loro espressioni facciali, che traducono in prima battuta i loro voli pindarici. Per Adam Driver una consacrazione pazzesca, ma splendido anche Jonathan Pryce.

8/10

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