Camminando per le vie l’afa appesantisce i miei passi, zavorra i miei movimenti; le sensazioni sono preda di un appiccicoso senso di vertigine. Dubito della solidità del suolo che calpesto e della città in cui sono, dubito dei ricordi che sfrigolano nella mia mente e persino della mia stessa esistenza.


Forse è per questo che cerco con ostinazione una panchina che conosco ormai da molti anni; un porto amico dove posso riposare lo sguardo rimirando un paesaggio di cui ogni dettaglio mi è noto. Una zattera sprovvista di remi dove posso dolcemente lasciarmi andare e seguire la corrente dei miei pensieri.


Forse è per questo che decido di ascoltare questo disco, un bicchiere d’acqua fresca che proviene da fonti di origine controllata. Un album in cui l’arpeggio semplice e cristallino del Pajo solista gracida tra gli stagni psichedelici del Montgomery più lineare; in cui i riverberi degli Spacemen 3 più edulcorati riposano sulle ritmiche ipnotiche e suadenti dei Pink Floyd più dimessi.


Una psichedelia cromatica e sonnolenta dove possiamo gustare i croccanti colori primaverili e dove morbide distorsioni sparpagliano in cielo i petali di ilari papaveri. Un’umida atmosfera onirica narcotizza i sensi mentre il disco gioca sull’alternanza di strumenti “morbidi” (bongo, xilofono, pianoforte, arpeggi acustici) e liquidi droni chitarristici che si arrampicano sui muri della coscienza.


Una luce ineguale illumina la cartilagine di molli armonie mentre profonde pozze lacustri sono increspate dalla brezza di rassicuranti riverberi. Un sottile gioco di specchi riflette vaporose immagini cangianti che si dilatano e sfumano nell’etere prima di essere fissate nella memoria.


Un disco equilibrato senza essere piatto, ponderato senza essere cervellotico. Un disco che ha il pregio di parlare un linguaggio che forse conosciamo perfettamente, ma, che nel farlo, ha la fragranza seducente di una voce fresca e armoniosa. Come quella panchina, a volte, è proprio quello che ci vuole.

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