Capita quasi ogni giorno - se non altro molto spesso - di imbattersi nell'ultima voce della verità musicale annunciante l'incredibile rivoluzione operata da questo o quell'altro gruppo, nel tale o talaltro genere. E anche se troppe volte la puntualità di questi irruenti giudizi è - alla luce dei fatti - da smentire, non è certo un crimine averci provato: in un mondo che - anche nella sfera musicale - sprofonda sempre più nell'indiscriminato e tristemente piatto non-sense della mercificazione, è meglio non atteggiarsi ad apologeti del purismo perduto e donare riconoscimenti a chi di tale piattume si proclama manifesto oppositore.

No, davvero non c'è niente di male nel concedersi un po' di sano relativismo nei nostri giudizi, nel lasciarsi trasportare dai sensi anche laddove questi ti conducano verso lidi musicali inediti e da te stesso inaspettati. A conti fatti, "rivoluzione" è una parola inflazionata e distorta, muffosa: dischi che non hanno cambiato un bel fico secco girano ininterrottamente nel mio lettore, riscaldano le mie serate, nutrono i miei sogni; opere acclamate ed epocali, nobel della musica leggera di tutti i tempi camminano a miglia di distanza dalla mia anima.
Bella pretesa vedere i due poli del gusto personale e dell'oggettivo giudizio di rilevanza storica, del cuore e della "mente", riuniti sincreticamente in un'unica confezione regalo.
Bella pretesa volerne anche tanti, di regali, cercare ogni anno sotto l'albero un nuovo "Revolver", una manciatina di "Astral Weeks", di "Hejira", di "Steve McQueen"…Dovrei forse scendere per strada, prendere il primo mezzo utile e raggiungere quel simpatico vecchietto di nome Brian Wilson - redivivo, vigile, acuto scrutatore delle molteplici sfaccettature dell'animo umano - per chiedergli di non accontentarsi, di non fermarsi, di far finta di niente e mettersi di nuovo al lavoro?
Fingere di non sapere che brutto scherzo quel tipo dal volto intensamente rugoso ha giocato al mondo pubblicando - quarant'anni fa (?!) - il testo sacro del pop di tutti i tempi, "Pet Sounds"? Fingere di non essermi accorto che tutto o quasi è partito ed è finito lì, tra le pagine di quella Bibbia indiscutibile e sconvolgente? Dal pop tout-court ("Sloop John B.": una delle cantilene più geniali e gioiosamente appiccicose di sempre) al pop con venature prog (il ralenti centrale e i cambi di tempo in "Wouldn't It Be Nice" - che poco ha da invidiare al successivo tormentone di "Good Vibrations" -; la breve, superba, infinita "Caroline, No"), dalle commoventi partiture cameristiche di "Don't Talk (Put Your Hand On My Shoulder)" e "You Still Believe In Me" all'ispirata (e solo apparentemente brillante) rimeditazione delle armonie doo-wop ("That's Not Me": apogeo e declino del surf-rock), dagli straordinari e inauditi esperimenti di jazz-pop sinfonico degli strumentali (la title-track, "Let's Go Away For Awhile") alla pietra filosofale di qualsiasi torch-song o power-ballad a venire (l'immensa "I Just Wasn't Made For These Times"), fino al capolavoro dei Beatles senza i Beatles ("God Only Knows": cos'altro chiedere?) - tutto quello che la canzone leggera ha sempre voluto, cercato, sperimentato, desiderato nasce e muore in questi solchi, in quest'opera che stordisce chi ne capta la sottile e umile grandezza, in questo disco, che dal giorno della sua nascita scalda i sensi e rigenera la mente.

Davvero c'è poco da dire su album come questo. "Pet Sounds" brilla di una luce molto particolare: quella, abbagliante e imperitura, di un'ispirazione che è la culla di tre quarti della musica moderna.

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