Il primo elemento che mi ha colpito di questo fondamentale, mastodontico, divertente ed entusiasmante film/documentario musicale di circa 12 ore (in cofanetto di cinque DVD), è che scorre via, letteralmente, come l’acqua: merito ovviamente dell’oggetto dell’opera (insomma, la storia dei Beatles, non penso ci sia da aggiungere altro), degli straordinari (a dir poco) filmati, canzoni, video, di un montaggio esemplare (il tutto risulta profondamente accattivante, pur non rinunciando a nessun particolare della loro epopea) e dell’idea, fondamentale, di far raccontare la storia dei Beatles ai Beatles stessi (si, compreso John Lennon ovviamente, grazie a un lavoro certosino di ricerca e selezione accuratissima e appassionata di tutte le sue interviste disponibili) e ad un’altra figura chiave come George Martin (le interviste sono state preparate per l’occasione da personaggi che conoscevano i protagonisti, in modo tale da far emergere totale spontaneità e profondità dal lungo racconto). Insomma, qui l’impressione generale è che non si stia semplicemente guardando un documentario sui Beatles: qui si sta in realtà rivivendo con loro quegli anni.

Il secondo elemento su cui ho riflettuto è che l’odissea che viene narrata (con un costante senso dell’umorismo e autoironia, tipica dei quattro; come testimoniano certe loro interviste dei primi anni, che puntualmente si trasformavano infatti in siparietti comici) è durata sette miseri anni. Lo ripeto. Appena sette anni. Lo ripeto ancora. Soltanto sette anni: è un particolare a cui spesso non si presta attenzione quando si riflette su quello che questi quattro tizi sono riusciti a creare in questo limitatissimo periodo di tempo: pensate ai loro pezzi, tra cui svariate decine (!) entrate letteralmente nell’immaginario collettivo e che oramai fanno parte della storia dell’essere umano e pensate quindi al loro infinito talento compositivo (hanno fatto capire a tutti chiaramente che la cosa più importante in assoluto, nel rock, è la capacità di scrivere grandi canzoni); pensate al modo in cui hanno fatto evolvere la forma canzone e il concetto stesso di album; pensate al rivoluzionario utilizzo dello studio di registrazione, che dal 1965 diventa il loro laboratorio creativo per la sperimentazione; pensate a quanto sono stati capaci di cambiare ed evolvere in quei pochi anni, indicando l’unica strada percorribile per poter sopravvivere artisticamente: la curiosità, la costante volontà di non ripetersi e il guardare avanti, sempre e comunque. Pensate infine a quello che era il rock e il contesto culturale prima di loro e al modo in cui hanno letteralmente rivoluzionato costume e storia della musica.

Ed è proprio l “anima di gomma” del loro album del 1965 a segnare un importantissimo passo avanti per il loro percorso musicale: avevano già prodotto almeno due capolavori nei due anni precedenti (“A Hard Day’s Night” e “Help!”: ovviamente vengono analizzati e approfonditi anche i relativi film) e si stavano già cominciando a stancare di suonare dal vivo perché i concerti stavano diventando, sostanzialmente, sempre di più baraonde senza alcun senso (“a nessuno interessa ascoltarci: vengono lì solo per urlare”, diranno: ci sono una marea di live straordinari che vengono mostrati e amalgamati in modo semplicemente perfetto all’interno dell’epopea narrata in questo mastodonte e potrete notare che tutti i concerti, fino al ’66, hanno questo assordante rumore di fondo continuo che accompagna le loro esibizioni: che siano stati anche inconsapevoli precursori dello shoegaze?). Arriveranno quindi l’anno successivo a decidere definitivamente di eliminare ogni dimensione live (decideranno anche di evitare qualsiasi trasmissione televisiva, preferendo inviare video preregistrati da far mettere in onda alle varie emittenti), anche perché quello che combinavano nello studio di registrazione, tra creazione di suoni e arrangiamenti all’avanguardia assoluta e armonie vocali sempre più complesse, era ormai sempre più difficile da riprodurre dal vivo (esilarante vedere Harrison che in uno degli ultimi concerti del ‘66, mentre suonavano “Paperback Writer”, incitava l’urlo della folla esattamente nel punto del pezzo in cui le armonie vocali si facevano più complesse: in questo modo venivano completamente coperte, dagli urli del pubblico, le discrete stecche che puntualmente prendevano e di cui erano totalmente consapevoli).

Ora riflettete un attimo: erano oramai la realtà musicale più famosa, importante e influente al mondo (suoneranno allo Shea Stadium di New York, per la prima volta, nel 1965, davanti a più di 55.000 fans urlanti, ad appena due anni dal loro esordio); avevano incontrato Dylan (momento importante sia per lui che per i Beatles stessi, perché si influenzarono a vicenda e i risultati si vedranno infatti immediatamente nei solchi dei rispettivi dischi); erano diventati Baronetti; avevano incontrato (e jammato con) Elvis. Ah, avevano ovviamente pure appena conosciuto “Lucy in the Sky with Diamonds”, che fu inserita per la prima volta nel caffè di Lennon e Harrison attraverso cubetti di zucchero, senza che i due sapessero nulla (lo vennero a sapere immediatamente dopo l’assunzione): esperienza tragicomica da una parte, da film horror dall’altra (crisi di panico in un ascensore dove improvvisamente si convinsero che ci fosse un incendio in corso), spirituale dall’altra ancora (Harrison dichiarò che improvvisamente si convinse che esisteva un dio, che lo vedeva in ogni singolo filo d’erba, che fu come guadagnare centinaia di anni di esperienza in 12 ore, provando una travolgente sensazione di benessere): la cosa più logica da fare, a quel punto, era esattamente ciò che hanno fatto, ovvero sfruttare il loro status invidiabile per sperimentare, evolvere, portare ulteriormente avanti la loro musica.

Immediatamente dopo la grottesca disavventura della tappa live alle Filippine (per una serie di equivoci non si presentarono al Palazzo del Governo dove li stavano attendendo il Presidente, la First Lady e i figli piccoli in lacrime assieme ad altri 400 fans: praticamente furono malmenati e spinti a calci sull’areo di ritorno, senza nemmeno essere pagati, tra l’altro), decisero quindi di concentrarsi esclusivamente nella produzione dei dischi in studio. Già le copertine diranno tantissimo, in un crescendo di trovate che corrisponderanno al crescendo della creatività e delle evoluzioni musicali: i volti che si allungano, l’inquadratura strana e la scritta del titolo in “Rubber Soul”, che anticipava quella che sarebbe diventata la tipica grafica psichedelica sixties; i quattro non più fotografati ma disegnati assieme a qualcosa che strisciando si insinua tra i loro volti in “Revolver”; la trasformazione nella “Band dei Cuori Solitari del Sergente Pepe” con l’esplosione di colori, messaggi e volti di “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”; i quattro mascherati (tanto che potrebbero anche non essere loro) sulla copertina di “Magical Mystery Tour” e che infine scompaiono, assieme a qualunque altra cosa, su quella del “White Album”. E la musica? Beh la musica, da “Rubber Soul” in avanti, diventa sempre più complessa e le visioni che di colpo cominciano a riempire i loro pezzi si faranno sempre più ampie e profonde.

Tra la famosa dichiarazione di Lennon (per i pochissimi che ancora non la dovessero conoscere: disse che il cristianesimo è ormai allo sbando e destinato a svanire e che i Beatles erano più popolari di Gesù Cristo), i conseguenti roghi in pubblico dei loro dischi, il Ku Klux Klan che dichiara di voler interrompere i loro concerti con qualsiasi mezzo, le derive allucinatorie, l’uscita di “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” e la definitiva conquista dello status di gruppo più rappresentativo e guida di quell’epoca, la Summer of Love, le correnti mistiche indiane, il contatto col Maharishi, la morte di Epstein, la nascita della Apple e il film completamente fuori di testa “Magical Mystery Tour” (persino disturbante la scena di Lennon che, con l’espressione allucinata, versa chili e chili di spaghetti, utilizzando una pala, in un piatto su un tavolo di un ristorante), è interessante notare come le loro espressioni costantemente sorridenti, di appena 3 / 4 anni prima, diventano sempre di più un lontano ricordo (si potrebbe dire addirittura appartenente a un’altra epoca: il Lennon del 1969 risulterà addirittura quasi irriconoscibile rispetto a quello del periodo 1963/1966).

Dopo l’uscita del film d’animazione “Yellow Submarine” ecco spuntare fuori l’idea di una sorta di film/documentario sulle sessioni dell’album che avrebbe dovuto chiamarsi “Get Back”: dichiarazione d’intenti che rispecchiava la loro voglia di tornare all’immediatezza ed energia degli esordi: in realtà il disco uscirà, col titolo cambiato in “Let it Be”, in contemporanea al loro scioglimento nel 1970 (“Abbey Road” sarà quindi, in realtà, l’ultimo disco che incideranno; sostanzialmente consapevoli che sarebbe stato l’ultimo ed è davvero bello rendersi conto che rimarrà uno dei loro apici indiscussi) e il film documenterà disagi, noia, litigi, rabbia (si soffermano, ad esempio, sulla discussione tra Harrison e McCartney che culminerà con un Harrison che chiuderà con uno stanco e stizzito “dimmi cosa cazzo vuoi che suoni e la suono”, o qualcosa del genere) di una band che si sta sfaldando, avendo sostanzialmente la consapevolezza di quello che stava accadendo. Di certo il famoso concerto finale sul tetto è memorabile, con loro che, nonostante fossero stati avvertiti che i poliziotti stavano arrivando per fermarli (poiché “stavano disturbando la pubblica quiete”: ogni commento è ovviamente superfluo), fanno invece alzare volume il più possibile e Lennon che, immediatamente dopo lo stacco della corrente, dirà: “vorrei ringraziare tutti da parte nostra e del gruppo e speriamo di aver passato l’audizione” (frase che chiuderà anche “Let it Be”, il loro ultimo disco pubblicato).

Il film/documentario parte proprio dalle immagini del famoso concerto sul tetto ed è strutturato quindi come un lunghissimo flashback che parte dalle loro complesse origini fino ad arrivare al racconto della registrazione dei due ultimi brani “Free As A Bird” e “Real Love” (partendo dalle registrazioni dei rispettivi demo di Lennon): “ho dovuto autoconvincermi che John era solo momentaneamente uscito dalla sala di registrazione, per poter riuscire a concentrarmi e suonare per quei due brani” dirà, sostanzialmente, un emozionato Ringo Starr a proposito dei due nuovi pezzi attraverso i quali, come dirà McCartney, in qualche modo i Beatles alla fine tornarono insieme, per un’ultima volta.

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