Daniel Auerbach e Patrick Carney non hanno di certo bisogno di presentazioni. Il duo statunitense ha scalato le classifiche con pezzi ormai diventati vere e proprie hit, e l'ultimo loro successo "El Camino" è rimasto impresso nella testa e nel cuore di tanti fan e critici della carta stampata. A distanza di tre anni da El Camino, i The Black Keys danno alle stampe il loro ottavo album in studio: "Turn Blue", che sin da subito si è distinto per aver spaccato a metà il fitto pubblico di seguaci.

I ragazzi di Akron erano di fronte ad un bivio: proseguire sulla linea dettata dai precedenti successi o cambiare rotta!? La risposta è evidente sin dalla traccia d'apertura: Weight of Love è il pezzo che non ti aspetteresti mai ad inizio album, una ballata che sa di polvere del deserto, languida chitarra acustica, seguita da riff psichedelici di elettrica. Un pezzo messo li a voler dire: "non ve lo aspettavate, vero !?". Questo cambio di marcia non è necessariamente un male (almeno per chi scrive), perchè Turn Blue appare sin da subito un album maturo, da ascoltare e assaporare più in cuffia che alla radio, di fatti più intimista e lontano dai flagori da hit, fatta eccezione (non a caso) forse solo per l'azzeccatissimo singolo FeveSi prosegue con In Time, la seconda traccia, che conferma le sensazioni iniziali, virando solo lievemente rotta.Ha un ritornello niente male, ma in questo caso, il brano fatica a rimanere impresso. Discorso diverso per la seguente Turn Blue, che da anche il nome all'album. Pezzo di classe, semplice ma solo in apparenza.

Si arriva poi al singolo Fever, che come già accennato è il classico brano pensato e costruito per essere da classifica, in pieno stile Black Keys, sottofondo di organi, cori, diretto, senza fronzoli, e con un ritornello che spacca. Year in Review si muove sul filo delle prime ma anche in questo caso il brano suona piuttosto anonimo e manca quel qualcosa che lo faccia decollare.

Discorso diverso, invece, per Bullet In The Brain, una ballata sensuale, che parte lenta per aprirsi al ritornello. Chitarre distorte e un giro di basso splendido, forse la traccia più riuscita dell'album! It's Up to You Now provoca invece più di qualche sbadiglio mentre Waiting On Words si distingue per il falsetto di Auerbach, e un motivetto di chitarra ammaliante, anche se ad ammaliare davvero è la seguente 10 Lovers: gran bel giro di bassoaccenni di pianoforte, synth, e ritornello azzeccatissimo. Perla.

La seguente In Our Prime si aggira su territori più propriamente blues, con un bel assolo in distorsione sul finale, fino alla chiusura, sancita da Gotta Get Away, che rappresenta un pò un anello di congiunzione col passato. Il pezzo che ti saresti aspettato esattamente in apertura, te lo piazzano proprio li sul finale, allegro e furbetto quanto basta, getta luce su una tracklist dai toni decisamente più solenni. Come un gambero che cammina all'indietro, i Black Keys ricordano a tutti chi sono, ma solo dopo aver spiazzato e parzialmente demolito quanto fatto finora, come solo una band pienamente consapevole di se stessa può fare.

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