E' come quando accendi la zarsa, senti che brucia un po' in bocca ma il sapore è così buono.

Non puoi farla su troppo delicatamente ma non puoi nemmeno girare le dita in modo grossolano, altrimenti cade la mista sul tappetino della macchina, e poi col cazzo che recuperi il tutto, quindi trova l'esatta via di mezzo tra arte e forza e mettici la testa.

Una volta che poi ti arriva in testa puoi immaginare tutto quello che vuoi, anche una pletora di van zozzi, davanti ai quali piazzi la tua macchina fotografica a pellicola (se ti stai immaginando una cazzo di coolpix forse stai ascoltando un altro disco, spiacente "brutto trip, proprio un brutto trip") e scattane quante bastano per farci scorrere su El Camino.

E' più semplice di quel che si creda far un disco che salga in testa senza grattare, e i Black Keys ce l'insegnano. Ci insegnano a fare su con maestria, e quando inizi con un primo tiro come "Lonely Boy", con 'sta chitarra zozzona e grossa, il crunch che ti svirgola le narici e i padiglioni auricolari, e poi con la batta che se la sviaggia con questo suono che non è uscito vivo dagli anni '80, inizi bene, e la voce che si fotte il soul? Tanta roba. Ma poi vai avanti a fumartelo, e non si scucchiaia mai, e il bluesfuzzoso cazzocatchy arriva su "Gold On The Ceiling", voci di fattanza desertica e sberloni come se i White Stripes danzassero col mescalero su una collinetta sabbiosa assieme ad un coro di donne febbricitanti. E che gioiello il fiume acustico di "Little Black Submarines", il tiro da farsi seduti in veranda, finchè non si alza un vento elettrico che non lascia scampo. E via così, tiro dopo tiro, i rimandi ai '60, le svisate powerblues, le melodie che si incollano alle pareti del cervello

Fino alla fine del trip.

Fino alla fine della strada

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