L'improvvida Italia del rock non vanta solamente un'invidiabile scena progressiva (ovviamente relegata ai gloriosi anni settanta), ma anche un manipolo di oscure band metal che, seppur non passate alla storia per aver cambiato le sorti del genere, hanno riscosso un discreto successo fra gli addetti ai lavori, fino a divenire veri e propri fenomeni di culto.
Restringendo il discorso all'ambito doom, ciretei senz'altro un'ideale triade di loschi figuri che rispondono ai nomi di Antonio Bartoccetti (Jacula, Antonius Rex), Paolo Catena (Death'ss, Violet Theatre ecc.) e il protagonista di questa recensione, l'abruzzese Mario Di Donato (classe 1951!), in arte The Black.
Attivo fin dalla decade settantiana, il nostro arcano strimpellatore salta alla ribalta militando in band come Unreal Terror e Requiem, ma probabilmente l'incarnazione migliore della sua arte risponde al nome di The Black, progetto solista che vede i suoi natali nell'anno 1989 con l'allucinante “Reliquarium”: sospesa fra doom, heavy metal classico e tradizione progressive, la musica del progetto brilla per un salmodiante canto in latino, atmosfere tese e sacrali ed un chitarrismo free, senza regole, capace di passare in rassegna i più disparati registi, fra arrembaggi metallici, funambolici sprazzi progressivi, oblique allucinazioni ed imprecisioni di ogni sorta.
Ma il Nostro non è soltanto un pregevole chitarrista ed un modesto cantante, ma anche un ottimo pittore, qualità che il Marione nazionale non ama certo nascondere, costellando di diritto e rovescio le confezioni dei suoi lavori con i suoi buoni e sgargianti dipinti, spesso incentrati su temi sacri. Come del resto la sua musica, ossessivamente indagante le paure ancestrali dell'uomo che scaturiscono da antiche credenze e supertizioni. Il tutto ovviamente in un'accezione lontana anni luce dalla trattazione giocherellona che domina il genere, più vicina piuttosto alla scrupolosità dello storico dell'arte. Le sue due passioni (arte pittorica e musica) sono del resto inscindibilili, tanto che la critica ha coniato due illuminanti espressioni per descrivere la sua arte (“Ars Mentis”, Arte Fantastica della mente, e “Metal Mentis”, Metallo della Mente). Che i due filoni procedano di pari passo, del resto, lo capiamo scorrendo i titoli della nutrita dicografia della band: “Infernus, Purgatorium et Paradisus” (1991), “Abbatia Scl. Clementis” (1993), “Refugium Peccatorum” (1995), “Apocalypsis” (1996) ecc.
Non fa eccezione “Golgotha”, sesto album della saga The Black, pubblicato nell'anno 2000 dalla fondamentale Black Widow. Non fa eccezione dal punto di vista “visivo”, poiché l'album si fregia di due famosi dipinti ad olio di Di Donato: in copertina “Postmortem”, sul retro “Il Dolore di Maria”. Ma non fa eccezione nemmeno da un punto di vista concettuale, dato che l'opera, significativamente a cavallo fra due millenni, si ammanta di umori apocalittici, da “giudizio universale” potremmo aggiungere, andando a denunciare la violenza insensata e il caos che pervade ancora la storia dell'uomo, in particolar modo al termine del secondo millennio.
L'eccezione, invece, la troviamo da un punto di vista strettamente musicale, poiché, nonostante alla base del tutto vi sia un solido concept (come del resto accade in tutti gli altri lavori della band), il lavoro, pur nella sua brevità, si mostra eterogeneo nei contenuti, presentando testi sia in italiano che in latino (quest'ultimo, in verità, lasciato in disparte, visto che l'album è quasi interamente cantato in lingua madre), contemplando brani originali e cover azzardate, mostrando una discontinuità fra composizioni lunghissime e brevissimi intermezzi, brani strumentali e non. Eppure vi è un senso di coesione che rende l'ascolto scorrevole ed omogeneo: a mio parere stringiamo fra le mani uno dei migliori lavori della band (seppur non si tratti del più rappresentativo).
Si parte con le ariose tastiere dell'introduzione sinfonica “Momenti Ansiosi”. Ma è solo l'inizio: un trascinante giro di chitarra apre le danze introducendo il pezzo forte dell'album, la bellissima title-track, una struggente “doom-ballad” che si candida fra le cose migliori mai prodotte dalla band. Il recitato di Di Donato ricorda un drammatico Renato Zero (!!!) insolitamente afflitto dalle sorti dell'umanità; i sognanti intrecci fra tastiere e chitarra e l'accelerazione finale tingono di Black Sabbath un brano che si meriterebbe di figurare fra i classici del rock italiano tutto. Con “II° Orbis (II Vers)” s'inizia a pestare duro: il brano è una staffilata di ruvido doom'n'roll che senz'altro ci riporta al passato della band; torna anche il cantato in latino, recitato da una voce malignamente rallentata, escamotage che tinge di nero il momento più tirato dell'album.
Dal brano più classicamente heavy del lotto, si passa con disinvoltura ad una incredibile cover de I Corvi: la perversa storia d'amore raccontata in “Sospesa a un Filo”, classe '66, a sua volta rifacimento di “I Had too much to Ream” degli Electric Prunes. Un episodio un po' atipico, se si pensa ad un artista come Di Donato, ma che infine non sfigura nell'insieme, poiché i toni originariamente beat del pezzo vengono stravolti dalla furia rock che la band sa imprimere (rammentiamo il pregevole lavoro dei fedeli Enio Nicolini al basso e Gianluca Bracciale alla batteria). Un breve intermezzo chitarristico (la vivace “Il Re Melograno”) precede la sontuosità di un altro brano strumentale, “Ultimatum”, chiamato a chiudere la prima parte dell'album: ivi tornano a far sognare le solenni concatenazioni di chitarra ed organo (strumento che infesterà di celestiale sacralità l'opera intera, cosa che non sempre accade nella musica di The Black).
Il Caput II ridona unità concettuale all'album, andando a rappresentare la porzione di esso meglio riuscita. La breve introduzione “Tormentum”, altro elegante interludio a base di organo, apre così la strada ad un doppiettone di pezzi strepitosi, in cui la band è in grado di sfogare finalmente tutta la sua furia progressiva, fino a questo punto messa a tacere. “Iustitia” è formidabile nei suoi giochi funambolici in cui la chitarra di Di Donato muta continuamente pelle, ergendo colossali muri di metal schiacciasassi e sgretolandosi in intricati passaggi di sublime ed opprimente doom progressivo. In particolare la coda strumentale è portentosa nel disegnare granitiche biforcazioni di chitarra ed organo, come la migliore tradizione oscura italiana esige, e dove non a caso rivivono il fantasma dei misterici Antonius Rex di Antonio Bartoccetti e quello del Paul Chain più catacombale ed inquisitorio. Fra italiano e latino, il brano riporta l'album ai fasti del passato, ma non sono da meno i dieci minuti della mastodontica “Il Giudizio”, folle rivisitazione del brano più celebre de Il Rovescio della Medaglia, scelta che va a ribadire lo stretto legame fra The Black e la tradizione progressiva tricolore. Che dire: aperta dal cupo battito di tamburi, la suite de Il Rovescio della Medaglia è una estenuante jam chitarristica in cui Di Donato sfoga il suo incontenibile estro (al quale francamente fanno fatica a stare dietro i due compari), resuscitando il brano attraverso la pesantezza dei Sabbath più arcaici e visionari. Di Donato non è certo un virtuoso delle sei corde, ma è abile nel cambiare repentinamente atmosfera e strisciare con la grazia di un elefante lungo le lande estese di una musica paesaggistica e dal forte impatto visivo. L'idillio è destinato tuttavia a concludersi, e a noi non rimangono che il minuto scarso della conclusiva “Coscientia Opprimi”, accasciata sulle note sbilenche, saltellanti, surreali di tastiere e pianoforte.
Una spanna sotto, quanto ad innovazione, verve sperimentale e perizia tecnica, agli inarrivabili Bartoccetti e Catena, Di Donato si merita senz'altro l'attenzione e il rispetto non solo di tutti gli amanti della formidabile “Italia Oscura”, ma anche di tutti coloro che sentono una tremenda nostalgia per quell'epoca in cui la musica non pareva avere confini e l'unico limite che si poneva ero quello di assecondare in tutto e per tutto la fantasia e la creatività.
Da riesumare.
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