La band nasce a Los Angeles nel 1964, dall’incontro fra il chitarrista-cantante James “Jim” McGuinn III (che cambierà il suo nome in Roger dopo aver abbracciato la religione indonesiana Subud), Gene Clark (Harold Eugene Clark) e David Van Cortland Crosby… tutti già da tempo attivi nella scena musicale folk (con McGuinn impegnato anche come songwriter per il cantante di successo Bobby Darin). A loro si uniscono da subito il batterista Michael Clarke ed il bassista (multi-strumentista) Chris Hillman, e con l’acronimo "The Beefeaters" ottengono un deal con l’Elektra Records per la realizzazione del singolo “Please Let Me Love You b/w Don’t Be Long”, che sul finire degli anni 80 troverà posto anche nella raccolta “In The Beginning” (Elektra - 1988), che riporta alla luce le sessions “perdute” ai Pacif Studios di Los Angeles, di quel periodo.
Sul finire del 1964 il gruppo firma con la Columbia Records e di lì a poco si rinomina “The Byrds”, entrando negli studi di registrazione per realizzare la cover “Mr. Tambourine Man” di Bob Dylan. Il singolo esce il 12 aprile 1965 e raggiunge immediatamente il numero uno nelle classifiche di vendita sia americane che inglesi, facendo dei Byrds, insieme ai conterranei e coevi Beau Brummels, la prima degna risposta alla recente “British Invasion”, subita dai (media) americani. L’immediato successo permette loro di cimentarsi in un lavoro sulla lunga distanza, ed a giugno dello stesso anno, vede la luce l’album d’esordio “Mr. Tambourine Man” (forse un po’ poco fantasioso riprendere il nome del singolo/cover per averne il traino), dove trovano posto ben 5 brani originali (in gran parte partoriti dalla fantasia di Clark) e 7 covers, di cui due, oltre alla title-track, sono a firma Dylan.

Lo stile del gruppo è già saldamente nelle mani (e nella 12-corde Rickenbacker) di McGuinn, dove il folk degli esordi viene miscelato ed addolcito con le nuove melodie provenienti dall’Inghilterra, tanto che lo stesso McGuinn ebbe a definire la sua musica degli esordi, come il tentativo di amalgamare Lennon e Dylan in un tutt’uno. Il risultato è una strabiliante altalena di suoni e sensazioni, un armonioso abbraccio onirico, dove anche le cover diventano pezzi originali e di estrema bellezza, tanto che anche la “dylaniana” “Chimes Of Freedom” trova con i Byrds il perfetto tappeto volante su cui stenderne le istanze di liberazione contro-culturale, che le permettono di penetrare nel tessuto sociale e bucare il muro di ostracismo eretto dai conservatori e perbenisti media americani. L’intero lavoro è permeato da quel velo di magia che solo i Byrds riusciranno a rendere così dolcemente e malinconicamente, grazie ad uno splendido intreccio vocale e a costruzioni armoniche ricamate finemente sulle migliori stoffe, a confezionare quell’originale stile “jingle-jangle”, che ritornerà ad intervalli regolari nella musica indie americana (Pavement, R.E.M. ed Husker Du, spero che bastino). Grazie (anche) a loro, il folk(rock)  assurgerà al rango di genere musicale degno e riconosciuto ed il rock intero riceverà un contributo non indifferente alla propria maturazione, passando da fabbrica di hit-singles a moderna arte letteraria e musicale, dove ogni singolo brano è un importante tassello (capitolo) pensato ed inserito all’interno di un album.

Una citazione finale me la riservo per la stupenda cover “We’ll Meet Again” di Vera Lynn, brano di speranza post-bellica, usato nella versione originale da Stanley Kubrick per i titoli di coda del suo “Dottor Stranamore” e di cui i Byrds ne esaltano il lato umoristico nero.

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