Il miscuglio di influenze che spesso contraddistingue un gruppo, non è mai completamente identificabile. Prima di tutto perchè il gruppo che viene "influenzato", a meno che compia una mera operazione di "imitazione", cerca di rielaborare il suono attraverso lo spirito del "suo tempo". In seconda istanza perché non è facile districarsi nel panorama storico del rock, dato che spesso questo è un enorme cimitero di potenzialità inespresse e di tentativi incompresi. Soprattutto la new-wave, ha in sé talmente tante variabili e sfaccettature da rendere il lavoro di "riconoscimento" ancora più difficile.
Oggi, in pieno revival degli anni '80, sia nell'ambito della deleterea e inconsistente electro-wave, sia nell'ambito del più serio recupero di stilemi rock, è affascinante riscoprire gruppi che hanno segnato, a differenza della considerazione talvolta inesistente sui libri di storia, un suono, un'attitudine.

Tra questi sono da annoverare sicuramente i Chameleons. Provenienti dalla grigia Manchester, riversarono su questo lavoro d'esordio l'atmosfera desolata della loro città, forgiando un suono cupo, pregno di una melodrammaticità disperata, ma soprattutto di un "mood" epico che, a proposito di influenze, ha contribuito non poco ad ispirare quel capolavoro che è "Turn On The Bright Light" degli Interpol. Questi ultimi, hanno ripreso dai Chamaleons anche il senso del ritmo, quell'affannosa batteria e quei colpi di cassa ansimante, nonché le figure taglienti e minimali di chitarra, che giocano un ruolo di primo piano nel loro suono.

Indubbiamente, si sente il timbro "datato" di Script Of The Bridge. La produzione, in particolar modo, risente di quell'eco tanto di moda nella dark-wave inglese di quel tempo. E' fuor di dubbio che spiritualmente i Chameleons appartenessero a quel movimento, almeno su questo disco. Un brano come "View From A Hill", non può non far tornare in mente ad esempio, le desolanti visioni dei Cure più distesi, con quelle chitarre liquide e quel cantato immerso in spire di malinconia.
Ma la solennità di composizioni come "Thursday Child", con quel ritmo galoppante su preziose scintille minimali di chitarra, o come l'iniziale "Don't Fall", con quel passo marziale avvolto da disegni incendiari di note minori segnavano la quintessenza del loro stile "anthemico", che tanto somiglia anche a certe cose che faranno in futuro i vicini di casa U2, sicuramente molto più fortunati.
In mezzo, ci sono l'andamento stentoreo di "Here Today", la forza trattenuta di "Monkeyland", molto vicina alla pseudo-psichedelia dei Love And Rockets, "Pleasure And Pain", che pare una versione "umana" della "Doctor Avalanche" dei Sisters Of Mercy, e lo spiraglio di luce di "Thursday Child", una ballata travestita da un ritmo perentorio.
Su tutto, una qualità degli arrangiamenti, un senso della melodia, ed un'eleganza non comuni.

Quindi, in definitiva, se ancora non avete avuto la fortuna di imbattervi in questo disco, fatelo senza remore, perchè non sono molti coloro che hanno saputo coniugare tutte queste qualità in maniera tanto convincente. Resta il fatto che come spesso accade, il gruppo non ha avuto i riconoscimenti che meritava. Ma questo poco importa dinnanzi alla godibilità della loro musica.

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