I The Church sono sempre stati di modeste vedute, forse perché sottovalutati, sebbene -opinione di tutti- meritassero molto di più; ma forse è proprio questo che li rende maggiormente apprezzabili, perché non hanno preteso di rendere mainstream la musica alternativa, e sono sempre rimasti fedeli alle atmosfere post-punk e psichedeliche delle origini, pur proponendo al loro interno un'evoluzione stilistica senza ridondanti ribaltoni.

Siamo nel 1992 e di gruppi alternative che ormai di alternativo hanno ben poco ce ne sono anche troppi. La vera musica indipendente si trova soffocata dalla sproporzionata crescita del grunge.

E in questo quadro d'inizio '90 i quattro "aussies" sfornano un album concettuale tutt'altro che facile, se non impossibile da decifrare, incantando la modesta fetta di pubblico che dagli eighties ha imparato ad apprezzarli nonostante l'ostracismo e l'indifferenza dei mercati musicali europeo ed americano. Quelli della "chiesa" si concedono una lieve svolta elettronica che alimenta le ormai già conosciute loro peculiari atmosfere psichedeliche e sognanti.

Il concept è un'opera d'ampio respiro, il più lungo album della loro discografia, con ipnotici brani che arrivano a lambire i 10 minuti, per un "gesamtspielzeit" di ben 64 minuti. Qualcosa che travalica le etichette, che va a ricordare per ambizione e per certe atmosfere addirittura certi lati della musica progressiva. Ciononostante un lavoro perfettamente di pari passo con altri megagruppi che all'epoca con cose simili, ma per certi versi anche meno accattivanti (U2, R.E.M., senza nulla voler togliere a loro, eh..), occhieggiavano al mercato ammanicandosi in un giuoco lucroso, lasciando gruppi come i nostri canguri annebbiati nelle loro frasi oppiacee.

Una copertina in perfetta sintonia col contenuto: enigmatica e accattivante, proprio come l'opera.

Punte di diamante di questa perla perduta, "Aura", "Chaos", "Kings", e i due singoli estratti "Feel" e "Ripple". Una scelta non casuale anche quella dei titoli monovocabolo. Elementi di novità sono il batterista Daugherty, già drummer di Patti Smith, che aggiunge un tocco jazzy al tutto, e certi giuochini di chitarra con volume, vibrato (soprattutto lui), e feedbacks del gran Willson-Piper.

"Priest=Aura" è un bell'album, l'ultimo forse che godrà delle seppur fioche luci della ribalta dei The Church, che continueranno comunque una prolificissima discografia che continua oggi. Unico neo, potrebbe rivelarsi un po' ripetitivo, questo è il rischio di un album così lungo di questo genere, ma se la vediamo come un' ipnosi nel mondo tutto psichedelico dei quattro australiani, può anche starci.

 

But a part of me will never be free

And the part that's free will never be me

But a thing of love and beauty is in my head

A message from our enemies, and here's what they said

They said that love = hate

And death = fate

An enemy always equals an adorer

But priest = aura

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