Nel 2014 la Corte di Cassazione ha sentenziato che è gravemente lesivo della reputazione e dell’onorabilità personale paragonare una donna ad una nave scuola, sottintendendo un riferimento alla vastità delle sue relazioni amorose.

Ovvio, dacché ricordo tale immagine frequentemente abbinata alla passeggiatrice, seppure ai tempi in cui questa era una figura a suo modo romantica ed affettiva, come in un film di Federico Fellini o in una canzone di Fabrizio De André.

Poi è venuto il tempo della prostituta e della puttana guardate con disprezzo da quelli che ben pensano ed una realtà per nulla immaginifica ha spazzato via la patina romantica ed affettiva.

Meglio così, d’altronde, perché la patina esiste solo in qualche film e canzone.

Questo breve inciso a mo’ di introduzione, per quanto confuso, spero valga a fugare ogni sospetto di vilipendio a mio carico per la ricorrente associazione tra «Sandinista!» ed una puttana.

«The Magnificent Seven», «Junco Partner», «Ivan Meets G.I. Joe» e tanti altri solchi incisi su quei tre vinili sono le puttane che mi hanno introdotto ed insegnato l’amore per suoni inauditi.

«The Magnificent Seven» su tutte.

Quel primo approccio segna uno degli innumerevoli momenti in cui la mia esistenza cambia verso, la porta scorrevole attraversata consapevolmente.

Peraltro, il primo approccio con un disco dei Clash ha sempre rinnovato quel sentimento di svolta, è andata così con «Janie Jones», «Safe European Home», «London Calling», «Know Your Rights»; perfino «Dictator», anche se questo, di approccio, ha significato la fine di un ciclo, invece della visione di nuovi orizzonti, come quando realizzi di non avere più l’età per andare a puttane.

Ovviamente, è andata così con «The Magnificent Seven».

È andata che il compagno di classe che ne capisce mi passa sottobanco una TDK90 cromo, quella coll’etichetta viola per chi se la ricorda. E sul nastro scorrono veloci Pretenders, Cure, Sex Pistols, Ramones, Joy Division. Ma in apertura risuonano gli oltre cinque minuti di «The Magnificent Seven».

Mi avesse passato sottobanco la soluzione dell’equazione trigonometrica non sarei stato rimandato in matematica, ma la mia vita sarebbe trascorsa senza sorprese.

«I Clash hanno cambiato la mia vita. Lo dicono tutti quelli che li hanno ascoltati, amandoli. Capisco quel che provano, hanno cambiato anche la mia vita» è, all’incirca, l’incipit di «Death or Glory», il bellissimo libro che Brad Gilbert ha scritto sulla band londinese. Non occorrerebbe leggere oltre per comprendere tutto.

«I Clash sono stati una voce forte. Se hanno cambiato la vita di una sola persona, hanno raggiunto il loro scopo». Così parla Joe Strummer una volta che la corsa sua e di Paul Simonon giunge al capolinea e sono certo che abbracci in quell’ideale anche Terry Chimes, Nicky Headon ed il sodale Mick Jones, anche se la loro corsa si è conclusa a precedenti fermate.

Michael Geoffrey Jones.

A lui si deve «The Magnificent Seven», è sua l’idea.

New York 1980, il luogo e l’anno: i Clash sono in tour negli Stati Uniti per cavalcare l’onda lunga di «London Calling».

Pochi mesi prima la Sugarhill Gang pubblica «Rapper’s Delight», 15 minuti di musica “nuova” su 12 pollici, rivoluzionaria nella forma e nella sostanza.

Mick è il principale recettore delle nuove sensazioni. Batte incessantemente tutti i negozi di dischi di Brooklyn che diffondono quel nuovo verbo e ne fa incetta. Trascorre una settimana ad assorbire quel suono inaudito. Poi raggiunge Joe all’Electric Lady Studio.

È in quei giorni che Joe trasforma lo studio di registrazione fondato da Jimi Hendrix nel bunker delle canne, edifica una rudimentale trincea accatastando i flight case degli strumenti a ridosso di un angolo; Joe che perde la testa salendo e scendendo dai taxi nella speranza che il conducente gli passi una canna, e le sue speranze di rado vengono deluse. «È sensazionale. Questa è New York», testuali parole di Joe.

John Graham Mellor.

A lui si deve «The Magnificent Seven», è sua l’idea.

Joe è nel bunker con Mick. Mick sbuca fuori dalla catasta: «Ci serve qualcosa di veramente funky, Joe vuole fare un rap». Mentre i suoi compagni inventano un riff e lo mandano in loop, Joe scrive il testo seduta stante, un flusso di parole che sgorga ininterrotto per due ore, «The Magnificent Seven Rap-O-Clappers», poi solo «The Magnificent Seven».

Così ne ricorda la genesi Norman Watt-Roy.

Norman Watt-Roy, il bassista dei Blockheads di Ian Dury, è arrivato pochi giorni prima nel bunker delle canne per sostituire Paul Simonon, scritturato per recitare in un film in lavorazione a Vancouver. Non c’è tempo per attendere il suo ritorno, ed è così che Norman si ritrova a suonare la linea di basso in vece di Paul in «The Magnificent Seven».

Di Topper Headon non so mai cosa scrivere.

Nicholas Bowen Headon è quello che rimane un po’ in disparte, lontano dai riflettori. È il metronomo della banda. Il primo pezzo perso per strada. Penso che la fine dei Clash sia iniziata con l’allontanamento di Topper più che di Mick. Poche parole, per lui parla la batteria in «I’m Not Down».

È l’8 aprile 1980.

«Veniva giù acqua a catinelle ed eravamo completamente fradici. Allora io e Norman ci siamo seduti ed abbiamo cominciato ad improvvisare, dopo un po’ è venuta fuori quella che sarebbe diventata The Magnificent Seven. Poi cominciarono ad arrivare i ragazzi e dissero “Oh sì, va bene”. È arrivato Topper e ci ha messo un ritmo di batteria e Joe è scomparso per andare a scivere qualche verso. Siamo andati avanti ancora per un po’ improvvisando a braccio: Joe cantava, Norman suonava. Abbiamo fatto un lavoro enorme su quel pezzo», così racconta Michael William Gallagher, tastierista, anche lui nei Blockheads.

Sono loro gli artefici di «The Magnificent Seven».

Il primo pezzo rap ad opera di un gruppo bianco britannico. Paradossalmente, il più rappresentativo dei ritmi funk e dance che invadono le strade di New York in quel piovoso 8 aprile 1980. La Sugarhill Gang ma anche gli Chic.

Il 12 dicembre 1980 «The Magnificent Seven» apre il quarto album dei Clash, spinti oltre ogni limite: rockabilly, punk, reggae, funk, disco, dub, soul, errebi, gospel, calipso, salsa.

Funk, disco, dub, le puttane che mi hanno introdotto ed insegnato l’amore per suoni inauditi.

La copertina rossa e sanguigna, quel muro livido e sudicio in contrapposizione alla bianca immagine del muro pinkfloydiano.

I Clash escono dal ghetto colla radio in spalla e portano il nuovo suono nella sicura casa europea.
Il 10 aprile 1981 è il terzo singolo estratto da «Sandinista!»

La comunità punk più intransigente o soltanto più ottusa non accetta l’ennesima svolta, proprio come nel 1979 di fronte a «London Calling»: è la guerra ed i concerti sono l’occasione propizia per dichiararla.

«È molto più divertente suonare davanti ad un pubblico ostico che non di fronte ad uno già dalla nostra parte. Non suoni allo stesso modo quando devi evitare le lattine lanciate sul palco», parola di Paul Simonon.

Mancava solo lui per chiudere questa storia.

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