Ben pochi gruppi incarnano bene come i Cult il concetto di band di “culto”. Paragone così banale da avercelo sotto gli occhi ma non c’è nulla di più vero: capaci di grandissimi dischi Rock negli 80s’ (e non solo), non sono mai riusciti ad essere annoverati tra i veri grandi del genere come forse avrebbero meritato, nonostante un capolavoro, ma anche un disco di culto, come “Love”. Di certo la loro attitudine a mutare pelle di disco in disco non ha aiutato a inquadrare la band di Ian Astbury e Billy Duffy in un percorso musicale univoco, nonostante il carattere (quasi) sempre personale della loro musica, riconoscibilissimo nelle qualità canore e chitarristiche dei suoi due membri principali. Tuttavia d’altra parte è fondamentale sottolineare la loro singolare attitudine di cavalcatori di mode, la capacità di rivoltarsi completamente tra un album e l’altro (ovviamente è il caso di “Love” ed “Electric”), ma anche di essere precursori di quell’Hard Rock di fine anni ottanta che ha portato alla ribalta band come Guns o Skid Row. Ma il tutto rimanendo fortemente debitori anche verso il Rock classico degli anni settanta. Una sorta di posizione un po’ insipida tra passato e futuro.

Tuttavia, più che interrogarsi sul fatto se i Cult abbiano o meno raccolto quanto hanno seminato, è di gran lunga più importante parlare di musica. E nel nuovissimo “Hidden City” c’è davvero della bella musica. Anzi, si potrebbe parlare forse di uno dei migliori dischi (che con questo fanno dieci) degli inglesi. Tanto per capirci, “Hidden City” suona sì (ovviamente) Hard Rock ma strizza più di una volta l’occhio alla New Wave. Forse per la prima volta dopo “Love” nei Cult ritorna quella personalissima componente gotica dei primi due gioielli (indiscutibilmente i migliori, a parere di chi scrive) della band inglese. Ma in “Hidden City” c’è anche dell’altro, c’è anche tutto quello che i Cult sono stati dopo il già pluricitato (non si cita mai abbastanza) “Love”: rimandi ad “Electric” sono evidenti in alcuni brani, ma inevitabilmente questo lavoro è anche accostabile agli ultimissimi album partoriti in casa Cult. Ma la cosa che mi ha emozionato di più in questo senso è la somiglianza, in certi frangenti, col disco dimenticato dei Cult, il bellissimo “Peace”, parto considerato illegittimo dalla stessa band, ovvero quel disco che venne ri-registrato con Rick Rubin come produttore, che si sarebbe così trasformato in “Electric”, con suoni più massicci, più classicamente rock e settantiani, ma anche meno delicati, malinconici, sognanti, e, in un certo senso, sinceri.

“Hidden City” sembra quindi riunire in sé diversi di quegli elementi che nel corso degli anni i Cult hanno sperimentato, ma non è solo questo, perché la nuova fatica suona delicata, ricercata, e più introspettiva di qualunque disco mai prodotto dagli inglesi. Più azzeccata non poteva essere la copertina, con quel fiore bianco che si macchia quasi elegantemente di piccoli schizzi di sangue, così come il titolo, che allude a qualcosa di nascosto, invitando all’introspezione. In termini di sensazioni, questo è “Hidden City”.

Però c’è anche la classe, la tempra dei musicisti di mestiere, la qualità del songwriting. Duffy dimostra a pieni voti il suo stato di grazia e Astbury, seppur la sua voce non è più quella di un tempo, regala momenti di grande espressività e coinvolgimento emotivo. Tutto ciò si condensa in tracce di grandissima qualità, come l’esplosiva “No Love Lost”, in cui le liriche di Ian e la chitarra di Billy dimostrano ancora una volta quanto stanno dannatamente bene assieme, in un costante crescere d’intensità. Davvero significativo è anche uno dei singoli, “Hinterland”, più cupa, con il suo riff ripetitivo e vagamente soporifero (in senso buono) New Wave, perfettamente bilanciato da un ritornello con cui il pezzo sprigiona tutta la sua interiorità. Di certo uno dei pezzi migliori del disco. “Dark Energy” invece svolge alla grande il suo compito di opener, accattivante e rockeggiante al punto giusto, mentre “Birds of Paradise” è più riflessiva e richiama di più i primi Cult. Stupisce anche la traccia di chiusura, “Sound and Fury”, una delicatissima ballad in cui i protagonisti assoluti sono la voce di Ian e il pianoforte. L’album tuttavia non è perfetto, e in dodici tracce qualche pezzo sottotono c’è, mentre in generale si può forse notare un leggero calo nella seconda parte della scaletta.

Ma non saranno certo un paio di pezzi non brillantissimi a far dimenticare la bellezza, la qualità di un disco come “Hidden City”, che è la piena dimostrazione che i Cult sono stati e sono ancora una grandissima Rock band, che, appunto, ha raccolto meno di quello che ha seminato.

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