"Anything", settimo album dei Damned datato 1986 rappresenta la classica occasione da attimo fuggente; galeotta fu "Eloise", galeotto fu lo stentoreo gothic teatrale di "Phantasmagoria", e la band inglese si ritrova così in una terra di mezzo, davanti ad un grande bivio: rimanere nella dimensione cult che fino a quel momento gli era appartenuta oppure spiccare il grande volo verso la vera celebrità. Dopotutto a Dave Vanian non mancava nulla per diventare una vera icona rock universalmente riconosciuta: voce, carisma, talento e look inconfondibile, che anche di recente è stato maldestramente imitato da qualcuno. Il suo nome poteva benissimo essere conosciuto quasi quanto quello di David Bowie, ma la storia ha voluto diversamente: cosa di preciso non ha funzionato? I Damned, giustamente intuendo di aver già raggiunto il proprio apice in quel determinato genere volevano sviluppare un sound più vicino al rock psichedelico, la casa discografica (MCA) invece voleva un album nel segno della continuità per rafforzare il momentum creato da "Phantsamagoria". Same old tale in the book: disaccordi, pressioni, uscita discografica affrettata ed il risultato finale fu appunto "Anything", un compromesso che non accontentava nessuno.

Nonostante alcuni singoli di discreto successo l'album fu un fiasco e ricevette pessime recensioni; ora, è vero che "Anything" non è "Phantasmagoria" ma tuttavia non meritava un destino del genere perchè nel complesso è un buon disco, contenente ottimi spunti degni di nota ed approfondimento. Non mancano alcuni punti deboli come "The Portrait", sonata pianistica gotico-romantica proveniente con ogni probabilità dalle sessions dell'album precedente, ma che qui risulta vistosamente fuori contesto, il grossolano pop rock imbottito di fiati di "Psychomania", oltremodo fiacco e commerciale e la titletrack "Anything", che tenta di unire reminescenze punk rock con un organetto psichedelico a'la Ray Manzarek, un buon singolo ma privo del carisma di una "Is It A Dream" o "Shadow Of Love", probabilmente molto più efficace come live-act che su disco. Tuttavia, tolte queste imperfezioni il resto dell'album viaggia su alti livelli, il quartetto Vanian-Jugg-Merrick-Rat Scabies conferma grandi doti di stile e creatività, ben supportate dalla sapiente cura del suono e dell'arrangiamento affidata al produttore Jon Kelly. La desiderata svolta psichedelica si esprime in una bella rilettura in chiave quasi arena-rock di "Alone Again Or" dei Love, grandissima prova di abilità di tutti i componenti della band e sound esotico ed accattivante e soprattutto nell'accoppiata "In Dulce Decorum"-"Gigolo"; quest'ultima dopo un delizioso intro satirico-fiabesco dominato da tastiere ipnotiche e risate beffarde in sottofondo (che forse avrebbe meritato di essere accreditato come entità musicale autonoma) propone un rock molto byrdsiano nell'inconfondibile suono delle chitarre ed un piacevole alternarsi tra le voci di Dave Vanian e Roman Jugg mente "In Dulce Decorum", per me il punto più alto dell'album, è intrisa in un'atmosfera arabeggiante carica di drammaticità e tensione, arricchita da armonie vocali perfette ed un testo visionario ed antimilitarista. La ricchezza del sound mette particolarmente in risalto l'ottima produzione del disco e la sola presenza di questa canzone basta per mettere a tacere tutte le critiche pretestuose ed "ideologiche" rivolte a questo sfortunato album.

"Anything" riesce a sorprendere anche nei suoi episodi gotici, che risultano essere significativamente più cupi ed esistenziali di quelli da thèatre grotesque di "Phantasmagoria": "Restless", litania scarna, potente e spettrale, sostenuta da un formidabile Rat Scabies alla batteria ne è l'esempio perfetto, straordinaria è l'atmosfera creata dal connubio tra il basso di Bryn Merrick e le tastiere di Roman Jugg nella decadente "The Girl Goes Down" così come la drammaticità orchestrale di una marcia cadenzata e carica di spleen come "Tightrope Walk". Tolti i tre rami morti a cui ho già accennato quest'album si rivela eccellente, quasi come "Outside The Gate" dei Killing Joke, un disco coraggioso che propone elementi di discontinuità con lo stile (peraltro già di per se aleatorio e costantemente mutevole) dei Damned. Se alla band fosse stato dato il tempo e la libertà di lavorare più tranquillamente forse le cose sarebbero andate diversamente, probabilmente i Damned non erano tagliati per il mainstream ma almeno si sarebbero evitati la crisi e il successivo sfaldamento di una formazione perfetta e capace di grandissime alchimie compositive. La personalità troppo ambivalente ed i riempitivi pregiudicano una valutazione di quattro stelle piene (ma che con grande piacere arrotondo per eccesso), ma le canzoni prese singolarmente ne varrebbero anche cinque.

Carico i commenti... con calma