Non posso di certo venirvi a raccontare che un pizzico, persino qualcosa di più..., di delusione non si sia materializzata dentro di me nel momento in cui, per la prima volta, ho ascoltato il nuovo disco di The Dillinger Escape Plan.

Avevo già avuto modo di leggere recensioni (discordanti) di alcuni colleghi e avevo parlato con persone (affidabili) che lo avevano ascoltato e da questa carrellata di opinioni non mi ero fatto un'idea circa il valore del lavoro (quella rimane personale, ci mancherebbe), però avevo capito che The Dillinger Escape Plan avevano tentato il colpo grosso, quello che se ti va bene ti porta in alto, non solo come vendite, ma per meriti acquisiti. Se ti va bene... D'altronde il curriculum vitae è tale da far impallidire il 90% dei gruppi apparsi negli ultimi dieci anni, quindi era logico che cercassero di entrare nella storia in maniera definitiva. E volendo osservare la situazione da un punto di vista distaccato e non tenendo in alcuna considerazione l'ammirazione con cui li ho seguiti nel corso della carriera, bisogna ammettere che le idee costitutive di "Ire Works" potevano essere quelle giuste per giungere alla modellazione di una sintesi evolutiva, ipoteticamente perfetta, di ciò che il suono, al di là dei generi, ha saputo produrre proprio nel corso dell'ultimo decennio.

Gli elementi c'erano tutti, ma per la prima volta da quando esistono The Dillinger Escape Plan non sono stati in grado di applicarli e coagularli come una varietà così rischiosa di materia trattata avrebbe richiesto. Perché il metal (che già è multi contaminato e si porta appresso l'hardcore, per come lo intendono), che incontra strutture musicali non metalliche (dire avant, sarebbe dare loro un premio che non meritano), che incorpora un sound elettronico di derivazione glitch, che poi sceglie di aggiungere violino, violoncello, tromba, orchestrazioni, rock, jazz, una palese orecchiabilità e altro ancora deve partire dall'assunto che ha una probabilità molto alta di fallire. E The Dillinger Escape Plan sono andati vicini al fallimento, non essendo riusciti a rendere effettivamente concreto tutto ciò e non avendo dato ad esso un senso compiuto. Non per nulla quando l'album termina si rimane come in attesa che accada qualcos'altro, perché è palese che non hanno espresso appieno l'immenso potenziale.

Rinunciando alle parti di "esplosione sonora massiccia" e di "pericolosità intrinseca" si sono assunti una responsabilità che si è ritorta contro. Tanti ingredienti, ma assai statici se presi singolarmente, e che finiscono per risultare uno specchietto per le allodole, perché dei vari generi mescolati sapete cosa rimane? Il pop. E questo svela l'essenza di The Dillinger Escape Plan nel 2007 (con una line up in cui sopravvive solo Ben Weinman della formazione originaria), quella di voler comporre un disco pop robusto e contaminato, magari come potrebbe intenderlo un Mike Patton intento a mescolare Faith No More e Fantômas, ma pur sempre pop e anche un pò patinato. Il che non è un male, però è una constatazione che va esplicitata. Certo, "Ire Works" deve essere assorbito ripetutamente per coglierne le diverse sfumature, però è altrettanto evidente che ha molte ombre e mette in luce una band che ha commesso l'errore primario di considerarsi onnipotente.

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