Stavolta mi occupo di un disco che, pur essendo niente male, mi sta discretamente antipatico poiché, insieme ad altri tre album, segna la fase morbida e stagionata di questa formazione che avevo adorato per tutte le grintose e vulcaniche uscite precedenti. Il periodo di carriera a me sgradito va dal 1976 al 1980 e conta quattro lavori in studio (questo essendo il terzo, nonché l’ottavo nella loro discografia, anno 1978). La causa è l’arrivo e l’affermazione, all’interno della banda, del compositore cantante blue-eyed soul e pianista Michael McDonald.

Con lui, e con un cambio drastico del chitarrista principale dovuto a motivi di salute, i Doobies virarono dal trascinante crossover funky rock blues soul country gospel (!), portato avanti sin dagli esordi, ad un jazz soul popparolo dal ritmo molto più appoggiato e molto meno animoso, cogli strumenti sbocconcellati in punta di forchetta senza mai dare un bel morso: una deviazione verso gli Steely Dan, si potrebbe dire in altro modo.

In altre parole ancora, da un groove vispo e r’n’r perfetto per i motobikers si passò ad un soul pop di classe ma ruffiano, perfetto per le casalinghe insoddisfatte dell’epoca per le quali ‘sto McDonald diventò fonte di languidi pensieri impuri. Per ottenere ciò, dalle chitarre come strumenti guida il comando passava a pianoforte e tastiere, sempre made in McDonald. I Doobies diventarono perciò quasi il suo gruppo accompagnatore, mettendosi nelle sue mani con gioia perché lo consideravano un asso inarrivabile per loro, dal punto di vista della creazione di singoli di successo.

Fra i singoli contenuti in quest’album ve n’è uno di grandissima riuscita; s’intitola “What A Fool Believes” e contiene un hook, un gancio micidiale nel ritornello, quando il zazzeruto e barbuto cantante si lancia in un fraseggio in falsetto totalmente accattivante, assolutamente memorabile.

Come no, ma io rosicai al tempo. Mi mancava la ritmica tempestosa, all’acustica come all’elettrica, di Tom Johnston, la sua voce allegra e chiara e un po’ nasale, e poi un’adeguata dose di arpeggi sapienti di Pat Simmons con l'acustica, il suo country contaminato e virtuoso. E ancora le due chitarre soliste insieme, ad armonizzare oppure scambiarsi il proscenio, a fare casino. Mi mancava in conclusione il soul rock molto californiano dei Doobies originari, rotondo ma spumeggiante, sostituito da questo freddo jazz soul per adulti.

Per fortuna il McDonald se ne andò per proseguire la carriera a proprio nome, la band si mise in pausa riflessione finché Johnston si ripresentò ben guarito dall’ulcera tornandosene a fare la voce la chitarra e il compositore principale, spingendo i nostri a mettere insieme un’altra discreta fila di ficcanti e travolgenti canzoni negli anni novanta e duemila.

I loro primi cinque album “motociclistici” li tengo a reliquia in discoteca, non ho manco bisogno di risentirli perché li ho introiettati e mi risuonano in testa a comando, nota per nota. Purtroppo per la maggior parte delle persone l’immagine musicale dei Doobies che gira in testa è quella di questo periodo, non conoscendo le prelibatezze cucinate prima e anche dopo, le quali vanno ben al di là delle sole “Long Train Running” e “China Groove”.

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