Mentre i Doobie Brothers sono alle prese con le registrazioni del sesto album, accade che il loro principale compositore e cantante, il chitarrista Tom Johnston, si prenda l'ulcera e non ce la faccia più ad andare avanti ai ritmi bestiali (un quinquennio passato per due terzi in tournée e il terzo rimanente in studio a registrare musica, sì da poter pubblicare un disco all'anno) richiesti da manager e casa discografica.

Il forzato forfait del musicista più in vista del gruppo, di colui che lo aveva sin lì caratterizzato in primis con la sua voce un po' chioccia ma forte e carica di anima e comunicativa, nonché col grintoso e personalissimo stile ritmico sullo strumento sia elettrico che acustico, l'autore di buona parte dei singoli di maggior successo quali "Long Train Running", "China Groove", "Listen To The Music", "Another Park Another Sunday", mette ovviamente in ambasce la band: serve un nuovo strumentista, ma che sia soprattutto un bravo cantante.

L'idea migliore viene all'ex terzo chitarrista, ora passato a secondo per forza di cose, Jeff Baxter. Tempo prima, quand'era agli sgoccioli della sua permanenza  negli Steely Dan, aveva avuto modo di ammirare i servigi vocali resi al suo gruppo in studio da un certo Michael McDonald. L'unico problema è che costui non è chitarrista come Johnston e nemmeno un classico tastierista rock: è un pianista/compositore molto personale, del tutto devoto al rhythm&blues malgrado l'aspetto  barbuto da immigrato irlandese e gli occhi azzurrissimi.

Compositore?

 "Facci sentire qualcosa di tuo, Mike!" se ne esce il produttore Ted Templeman. E McDonald, più riluttante della band stessa circa la possibilità di integrarsi nella loro musica, fa partire il nastro di un suo demo, ribadendo che son cose abbastanza lontane dallo stile caratteristico dei Doobies e quindi non riesce proprio a vederci il nesso, ma dato che insistono...

Intanto che ancora parla, quelli vanno fuori di testa! Stanno ascoltando i provini di "It Keeps You Running" e di "Takin' It To The Streets" (la canzone), certo non troppo a che vedere con lo stile  Doobie Brothers al momento, ma molto a che fare con la sontuosa classe melodica, l'animoso e sexyssimo  timbro vocale, l'eleganza armonica dei rivolti pianistici e l'appeal commerciale in genere. I dubbi e le remore continua ad averli, ma ancora per poco, solo il nostro, tutti gli altri si convertono all'istante al nuovo corso: si fa un passo indietro nella direzione del rock, dei bikers, della grinta, ma contemporaneamente un deciso passo avanti verso il rhytm&blues, il jazz pop americano e, ehm..., le donne (adulte), verso le quali il faccione irsuto e zazzeruto di Mike, con quei due fari azzurri piantati in mezzo, costituisce richiamo irresistibile.  

Questo è quindi un classico album di transizione, anzi di svolta. Tom Johnston vi è ancora accreditato, dato che prima di ammalarsi seriamente era riuscito a suonare e cantare una sua composizione "Turn It Loose", in verità assai poco incisiva, e a mettere sporadica chitarra e cori qui e là. In attesa di vedere come andrà a finire, la sua posizione è lasciata poco chiara sin nella copertina dell'album, che presenta un occhialuto Pat Simmons (chitarra e canto) sul fronte, tutti e sette i componenti compreso Johnston all'interno ed il sestetto senza Johnston sul retro (in uno scatto preso in mezzo a un incrocio di Chinatown, San Francisco).

McDonald firma ed interpreta quattro delle dieci tracce del disco. La sua voce è così particolare e importante da rendere pressoché irriconoscibile il marchio Doobie Brothers in esse, ma la sua personalità e la sua storia artistica finiscono per influire anche sul resto, cioè sulla produzione, sugli arrangiamenti, sullo stile di quei brani che non lo vedono protagonista. Si respira infatti molta aria Steely Dan, molta voglia di fare musica leggera quieta e di classe, spruzzata di jazz e di blues bianco.

Il produttore alza molto nel mix il basso creativo (ma che sa un po' troppo di plettro, a mio gusto) di Tiran Porter, soprattutto fa quasi sparire la doppia batteria stile Allman Brothers che fin lì aveva accompagnato i brani rock (e a ben vedere di rock ce n'è assai poco in queste tracce, giusto la composizione di Johnston). Il secondo batterista Keith Knudsen è quasi costantemente impegnato come percussionista, mentre il primo picchiatore di tamburi John Hartman si ritrova spesso e volentieri a spazzolare il rullante e far poco altro. Gli assoli di chitarra, se ci sono, durano otto battute al massimo oppure soccombono a qualche sassofonista ospite. Soprattutto, il chitarrista, cantante e compositore Simmons appare trasfigurato rispetto all'immagine che si era creato nei precedenti dischi: niente chitarre acustiche nelle sue mani (sigh!), azzerata la fase country rock nella mistura di stili alla radice della loro musica, una fase che lo vedeva in primissimo piano grazie alla sua abilità di arpeggiatore.

Senza più il contrasto, fra canzone e canzone, delle forti chitarre ritmiche con i cesellati arpeggi country, senza gli assoli col distorsore e il fragore della doppia batteria, tutti i fans rocchettari della formazione si sentono traditi o quanto meno delusi. Ancor oggi molti di essi maledicono il giorno in cui le strade del blue eyed soul singer Mike McDonald e dei Doobies si sono incrociate.

Per molti altri non è così e il loro gradimento va ad entrambe le incarnazioni del gruppo, ma io sto coi primi: Mc Donald è un bel compositore e una voce che non può passare inosservata, ma il mio amore eterno va ai Doobie Brothers di Johnston (che per fortuna ritornano, nel 1989). La "fase McDonald" (quattro dischi, da questo del 1976 all'ultimo del 1980  prima del temporaneo scioglimento del 1982), per quanto mi riguarda, è interessante e costellata di belle canzoni, ma priva della magia che pervade, a mio sentire, tutti gli altri episodi della loro discografia.
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