Stephin Merritt ritorna con la sua creatura migliore, i Magnetic Fields, per raccontare, in due ore e mezza di Indie Pop, Indie Electronic ed Alternative Rock, come si fa a diventare quello che si è, e come si fa ad essere quello che si diviene: un freak, un new waver, un antieroe, praticamente un talentuoso, forse geniale, certo “inclassificabile”, scrittore di canzoni.

Dopo i capolavori “The Charm of Higway Street” del 1994 e il monumentale triplo “69 Love Songs, datato 1999, ecco freschissimo di stampa “50 Songs Memoir”, una ulteriore opera a tema, una autobiografia minimalista di pop songs naif, coincise, perlopiù sui 2’30’’, dove ogni brano appronta simbolicamente, uno ad uno, i primi 50 anni di vita del chansonnier di Boston.

Questo intento narrativo, nella evidente prevalenza dei brani elettronici su quelli acustici, si coniuga viepiù con la ricerca metodica di suoni sintetici ottenuti dagli stessi strumenti acustici, reali, che vanno ad aggregarsi a tessiture melodiche di sintetizzatori retro-futuristi e pattern di drum machine opportunamente vintage. Merritt, che gestisce in proprio quasi tutta la ricca e variegata strumentazione, oltre 100 unità, spazia dall’Ukulele all’organo farfisa, dalla chitarra acustica e dalla Stratocaster al Dulcimer, dalla celeste al charango e all’abacus, passando per Synth e Drum machine di tutti i tipi e di tutte le epoche. La strumentazione sofisticata e artificiosa, non sovraccarica mai il singolo brano, ma si articolata in pochi strumenti, che cambiano a ruota nei brani, a costituire appunto piccoli ensamble da camera, registrati con attitudine lo-fi, in qualità casalinga, con una produzione volutamente scarna, essenziale, nel rifiuto di trattamenti o amplificazioni eccessive. Gli arrangiamenti sono altresì sobri, anti-wilsoniani, restii ad ogni magniloquenza e ad ogni ridondanza; risultano evocativi, ma asciutti, a servizio della melodia nella sua naturalezza. Questa chiave estetica ha esiti fascinosi, ammalianti, proporzionati, senza rapire nell’immediato. Abbrividisce e cresce smisuratamente negli ascolti, proprio inducendo ad addentrarsi nella poetica di quello stile parco ed erudito al contempo. Folk non più Folk, sintetico, fintamente.

Il crooning di Merritt poi, pari ad un magnifico pseudo Sinatra dei reietti e dei pusillanimi, si dipana magistralmente nel canto da trovatore; menestrello spesso sardonico, finanche meditabondo, a tratti soppesa la nostalgia. La sua voce baritonale impasta i timbri di Johnny Cash, Ian Curtis ed Andy McCluskey ( OMD).

Il cantautorato, da fine chansonnier, è in primo piano in tutto “50 Memoir”: il mestiere che ostenta con divertita e consapevole sottigliezza, tra spirito ed intelligenza, mostra la capacità di ritrarre la commedia umana con equilibrio, tra gravità e leggerezza, congiungendo sogno, utopia e disincanto. Ecco servito un ciclo di canzoni intimo ed accessibile, meno universale di “69”, non innovativo rispetto ai suoi i vertici artistici e creativi, “Highway Strip” e “69 Love Songs”, che vengono rigenerati in nuovi pezzi di artigianato d’alta qualità, con sagacia e forza espressiva nella duttilità della composizione.

Merritt, autore di tutti e cinquanta i brani, divisi in cinque “dischi-decenni”, che ha mandato a memoria Schubert e gli Abba, ripercorre le proprie passioni per gli Ultravox di Johnny Foxx (vedi “My Sex” e “Hiroshima Mon Amour”), per gli Human League di Travelogue, per i Kraftwerk, per Brian Eno di Before and After Science, per Cole Porter, per l’esoterismo spiccio dei The Creatures, per Spector e Bacharach, per i Japan, i Devo (degli Hardcore Demos), John Fahey, per Young Marble Giants, per la Nashville di Dylan, per il duca beatlesiano Andy Partidge, per Broadway, per lo steampunk e la Bubblegum music. Esistenzialmente, zappianamente, “Music is the best”.

Lo One Man Band dei Magnetic, coadiuvato da una manciata di fedeli musicisti, con le sue melodie amare e dolci avvolte in sinfonie techno, una musica acustica ed elettronica, che suona moderna contestualmente ad una strumentazione quasi in obsolescenza, forgia il suo personalissimo e desueto stile cantautorale nell’Indie Pop -Synth Rock, e nell’apologia definitiva dell’epica degli antieroi.

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Questa è la disposizione di questo impareggiabile concept, riflessivo, poche volte malinconico, mai mesto, colto ed eccentrico, distaccato ma non troppo, l'anamnesi dei cinquant’anni del protagonista, tra affetti, rimpianti, conflitti e “vecchie paure”. E' la ricerca di una riflessione e di una prospettiva su quello che è stato e su quello che poteva essere, nella consapevolezza muta che quello che fu sia diventato tale non per fatalità, ma per libera scelta. “Così fu, perché così volli che fosse”.

Dice un proverbio sanscrito: bisogna tenersi lontani ma non troppo soprattutto da quattro cose: il guru, il fuoco, il vino e le donne. Merritt ha trovato l’equilibrio almeno per i primi due dei quattro termini: non ha più bisogno di maestri e la sua musica non brucia effimera.

WARNING! Facoltativa la rassegna sui brani.

ATTENZIONE, solo per introversi ed integerrimi. PREZZO: la pazienza.

Si tratta di appunti:

CD 1:
“'66 Wonder Where I'm From” opening folkie con l’ukulele, “'67 Come Back as a Cockroach”dalla bella melodia cadenzata, sobria poi con irruzione bandistica di tamburini, cimbali, orpelli, trombe e campanellini, “'69 Judy Garland” sorta di ballata alla Billy Bragg, “'70 They're Killing Children Over There” dove il quattrenne Stephin fraintende Grace Slick dei Jefferson, confondendo il Vietnam col retropalco della sala-concerto dove “uccidono i bambini laggiù”. “'71 I Think I'll Make Another World” lirica e vibrante melodia dove compaiono i cori, più sfruttati in quest’opera che in passato, ed il bel controcanto della Gonson, il pezzo si ispira agli Zombies di” Oddisey and Oracle” e alle visioni degli hawaiani più improbabili, i The Creatures, “'73 It Could Have Been Paradise” è un raga paradossalmente New Romantic.


CD 2:
“'76 Hustle 76” è tuffante disco beat, “'77 Life Ain't All Bad” è chiesistica con l’Hammond B3, “'78 The Blizzard of ’78” prevede il dulcimer suonato con piglio alla Fahey, “'79 Rock'n'Roll Will Ruin Your Life”, invece, un bellissimo anatema materno, dal beat ficcante, di scrittura raydaviesiana, con un ritornello killer.”'81 How to Play the Synthesizer “ altro grande pezzo orecchiabile, di rock fatto con le linee di basso sintetiche del Roland TB-303, tra gli Ultravox di “Ultravox!” e Human League verso “Dare”, basi della Acid House del futuro anteriore. Per contrappunto le tastiere di “'82 Happy Beeping” vanno in eco e presentano un bel coretto pastorale su un’esile ossatura di drum machine.”'83 Foxx and I” è una dichiarazione d’amore per gli Ultravox, austeri e letterari, e d’intenti per l’estetica electropop e l’epicureismo filosofico. “'84 Danceteria!” sentenzia che “La cultura non è per i deboli di cuore” essendo stato il luogo dove il neomaggiorenne Stephin ha visto esibirsi Nick Cave e Lydia Lunch e Blixa Bargel degli Einstürzende.


CD 3:
Si apre con il downbeat confidenziale ed intimistico di“'86 How I Failed Ethics”, che poteva stare benissimo su “69” e con l’infantile “'91 The Day I Finally” stralunata, alla Daniel Johnston. Si prosegue con il reggae solare di “'94 Haven't Got a Penny” tra Scritti Politti, i Clash di Sandinista! e, a quanto dice Merritt stesso, gli “ultra-clean” Ace of Base, mentre”'95 A Serious Mistake” rimanda ai Psychedelic Furs degli esordi, con un chorus in evidenza , da epopea, e suoni sintetici leggiadri.


CD 4:
Alza ancora il livello, con “'99 Fathers in the Clouds”, bellissima romanza, squisitamente pop, bucolica e decadente, dove Eno sembra mandare i Blondie al rallentatore, in una riflessione superba e amara sulla genitorialità; “'01 Have You Seen It in the Snow?” meravigliosa poetica nelle sembianze di “Swordfishtrombones”, con un Tom Waits che abbia imparato a cantare, trasposta all’epoca della riproducibilità sintetica, tingendo prima di crepuscolo la dolcezza del folk, per poi contrastarla con la drum machine e le incursioni di synth. “'02 Be True to Your Bar” è pianistica, solenne, semiseria, il testo buffo “Without your bar, you’d have no place to go” vorrebbe ingaggiare un sing-along alla Slade di “Cum On Feel The Noize”. “04 Cold-Blooded Man” presenta un allietato testo ossimorico “You need a cold-blooded man to keep you warm.”

CD 5, infine, forse:
C’è “'07 In the Snow White Cottages” ed il suo paradigma è Eno di “By This River”, la veste sonora e letteraia va incontro ad Elliott Smith.
“'10 20,000 Leagues Under the Sea” è nerboruta, gagliarda come i Devo sperimentali degli “Hardcore Tapes”, ma orecchiabili come quelli di “Duty Now for the Future”, in un cantato-parlato-recitato proteiforme e d’impatto.
Risalta ancora la bellezza evocativa, trasognata di “'13 Big Enough for Both of Us” e di “'14 I Wish I Had Pictures”, nostalgia, a suo modo “canaglia”, che ricorda le trasparenze di Islands nella deflagrazione finale del brano omonimo dei Crimson. Chiude il lotto “'15 Somebody's Fetish”, un happy ending sul labile confine fra amore e feticismo che, che addita tutti dopo tanti personalismi, si proietta sul personalismo, ricca di fiducia nel genere umano, scanzonata, ironizza, senza istrionismi, pressappoco così: “Tutti sono il feticcio di qualcun altro. / … dalla scienza alla necromanzia / niente è così terribile che non venga poi messo in pratica…/ così io con la mia faccia da gnu / le mie idiosincrasie, frutto di libertà concessa dalla Grazia / E con Cupido trova che un cantuccio alla fine anche per me / io che ho vissuto isolato, / goffo scimmione…/ scrivo una canzone per te, apposta per te. / Tutti sono il feticcio di qualcun altro”. Senza i 49 predecessori non sarebbe stata la stessa, hoc videtur… ah, ricorda Zebra, l’epitaffio di “69 Love Songs”.

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