Io Stephen Merritt lo conoscevo solo per quelle voci cavernose così vintage nell'intepretazione che proprio non mi andavano giù, seppur corroborate da arrangiamenti sempre intelligenti e assolutamente imprevedibili. Adesso Stephen Merritt suona distorto come i Jesus and Mary Chain (dice), e siccome le distorsioni piene di eco sono una di quelle cose che più mi rende felice al mondo, do un'altra possibilità a quella voce baritona, alquanto incuriosito dall'accostamento proposto.
Per quanto tutto in questo album sia filtrato da una patina invischiata di echi e riverberi distorti, più che in territorio Shoegaze l'impressione è quella di trovarsi di fronte ai Red House Painters in piena crisi di allegria, o dal punto di vista opposto ai Beach Boys che scoprono il lato malinconico e distorto del rock. Da questo punto di vista il pezzo che mi suona più geniale è "California Girls", con quella voce alla Phil Spector sopra un muro di suono lo-fi ultrariverberato. E comunque la grandiosità del disco sta nel suo essere smaccatamente pieno di riferimenti eppure mai banalmente revivalista. Stephen Merritt gioca in maniera anche estrema con citazioni varie, ma tutte si ricompongono a formare un altro tassello di quella che è sempre stata la sua poetica (almeno per come io la percepisco) e cioè una musica del ricordo, o della nostalgia, un perdersi pacato in uno squarcio di memoria.

In definitiva, è un disco che ha il potere del racconto, il che lo rende confusamente geniale a maggior ragione nel suo palese citare forme lontane anni luce di cultura rock.

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