Non so per quale motivo né se c'è poi un motivo, ma in gioventù la Svezia ha esercitato su di me un'attrazione fortissima.

In principio fu lo sport: mai avuto dubbi se stare dalla parte di Bjorn Borg oppure di John McEnroe, di Mats Wilander oppure di Ivan Lendl, di Stefan Edberg – per non dire di Annette Olsen – oppure di Boris Becker; mi appassionai perfino alle vicende dello sciatore Ingemar Stenmark e di Jan-Ove Waldner, campionissimo di tennis tavolo.

Poi fu il cinema, Ingrid Bergman, non c'è nemmeno bisogno di dirlo, ma per lei credo che sarei svenuto ai suoi piedi pure se fosse stata originaria di Catmandù.

Infine, naturalmente, la musica: dai Nomads agli Hellacopters, passando per i Creeps, la fascinazione svedese mi ha colpito immancabilmente anche in questo caso.

Poi ho scoperto che in svedese la “g” si pronuncia “i”, per cui la capitale della Svezia è Iotebori ed il mio mito di bambino era Bori e quello adolescenziale era Edberi, e la fascinazione è sparita senza una ragione, così come era venuta.

Però i Nomads sono rimasti, forse perché non c'è la “g”.

I Nomads furono un gruppo strabiliante, basti dire che quando nei primissimi anni Ottanta il movimento garage era roba da Stati Uniti e basta, loro fondarono da zero la scena garage europea e fecero praticamente tutto da soli; e ancora oggi sono in giro ad infiammare palchi, con la stessa feroce grinta che li spingeva agli esordi.

Di loro, bisognerebbe avere la discografia completa o almeno lo strepitoso, quadruplo bignamino che è l'antologia «Showdown», tanto il primo volume dedicato agli anni Ottanta, quanto il secondo che ne ripercorre le tracce nel decennio seguente; volendo strafare, pure il tributo «20 Years Too Soon» sarebbe da possedere.

Qui, invece, restringo il discorso all'esordio sulla lunga distanza, il mini lp «Where The Wolf Bane Blooms», che è pura dinamite e, per chi è appassionato di sonorità garage, uno dei dieci dischi da possedere, costi quel che costi.

Il disco viene pubblicato nel lontanissimo 1983 a seguire due singoli, «Psycho b/w Come See Me» del 1981 e «Night Time b/w Boss Hoss» del 1982, nei quali i Nomads senza troppe smancerie danno ai Sonics quel che è dei Sonics – ossia l'essere i numeri uno di ogni tempo e luogo, senza starci a discutere troppo – ed al contempo posano una pietra fondante sulla quale nel breve volgere di un lustro è eretta una scena musicale da paura; e soprattutto, quella pietra è grande e grossa come tutto il vecchio continente, tanto che il verbo garage si riverbera giù giù fino all'Italia ed alla Grecia.

«Where The Wolf Bane Blooms», dunque.

Sei brani in scaletta, quattro sono covers, due gli originali.

Questi ultimi sono «Lowdown Shakin' Chills» che chiude il lato A e «Rockin' All Trough The Night» che apre il lato B, brani che tengono a distanza la sensazione del già sentito perché i Nomads sono diversi rispetto a tutti gli altri gruppi garage del momento, sono diversi dai Gravedigger V come dai Fuzztones, grazie ad una genuina attitudine rock'n'roll che li porta a contaminare il suono garage con tanto altro e basta sentire l'attacco di «Rockin' All Trough The Night» per concordare che questi sono i Cramps che si chiudono nel garage lasciando il motore dell'auto acceso ed imbracciano gli strumenti per maltrattare quello stesso Elvis che prima di diventare il re si dimenava al suono primitivo del rock'n'roll e del blues – gettando pure i semi di tanto psychobilly futuro, tanto che ci sono; per non dire di «Lowdown Shakin' Chills» che, fosse stata incisa vent'anni prima sarebbe finita dritta dritta ad aprire «Nuggets» o «Pebbles», e lo intendo come un sommo riconoscimento, nervoso artigianato psichedelico di pregevolissima fattura eppure intriso di acido punk rock, di quello che si suonava nella lontana Australia, Master Apprentice o Missing Links o chiunque altro vi venga in mente di quel dove.

Perché il 1977 non è passato invano.

I rifacimenti sono «The Way You Touch My Hand» e «I'm 5 Years Ahead Of My Time» sul lato A e «Downbound Train» e «Milkcow Blues» sul lato B.

Le prime due mettono in luce il lato più psichedelico della banda, che va a ripescare oscuri pezzi di storia sixties; e questo, qui lo scrivo e non lo nego, è l'aspetto più entusiasmante del garage anni Ottanta, perché quello che fanno i Nomads lo fanno i Fuzztones e lo fanno pure i Gravedigger V, e tutti insieme danno visibilità a gruppi che altrimenti sarebbero rimasti sepolti nella notte dei tempi, tipo i Third Bardo. E poi, quando un Pinhead a caso, anni dopo, si imbatte negli originali, sono cascate di brividi che vanno veloci su è giù lungo la schiena, e via di corsa a riprendere la cover dei Nomads per fare un confronto se vale o meno l'originale, e sarò pure un idiota ma il godimento che ancora oggi mi procurano queste inezie non ha prezzo.

E per chiuderla qui, prima ho tirato in ballo l'attitudine rock'n'roll dei Nomads, per cui eccole, «Downbound Train» e «Milkcow Blues»: a me, soprattutto «Downbound Train» mi fa impazzire, con quel feedback chitarristico che sale minaccioso in apertura e si srotola su un veloce tempo di blues, che ogni volta che parte il treno, risorge la buonanima di Jeffrey Lee Pierce e dei Gun Club tutti.

Che nel 1983 ancora ci si entusiasmi per grezzi rifacimenti di Chuck Berry ed Elvis Presley è sorprendente; che questi entusiasmino ancora nel 2016 è un portento, e i Nomads il loro piccolo, grande portento lo hanno realizzato.

Loro erano Hans, Nick, Ed e Joakim, quattro ragazzetti che realizzarono qualcosa che forse nemmeno avevano concepito.

Elenco tracce e video

01   The Way You Touch My Hand (03:17)

02   Milkcow Blues (04:15)

03   I’m 5 Years Ahead of My Time (02:30)

04   Downbound Train (03:33)

05   Lowdown Shakin’ Chills (03:37)

06   Rockin’ All Through the Night (01:47)

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