Ossessionati da droga e sesso, tallonati giorno e notte da indiscreti giornalisti, i Rolling Stones vivono, a inizio anni Settanta, uno dei loro momenti più complessi e difficili. Usciti, non indenni, da alcuni grandi successi, "Bagger's Banquet", "Let it bleed", gli Stones non sembrano poter ripetere exploit di tale portata: più che nei negozi di dischi sono sempre su riviste scandalistiche più o meno attendibili. Ad essere in crisi è soprattutto la sfacciataggine di Mick Jagger: storie di donne sparse qua e là, usate come oggetti da consumare e poi respingere, storie di droghe consumate fugacemente in qualche motel, e l'ispirazione, si dice, inevitabilmente calata. E invece, come non accade quasi mai nella vita, ma accade sempre nella musica, il periodo nero si trasforma, magicamente, in oro colato, perle da vendere al miglior offerente e ricercatezze tanto sublimi quanto epocali. Nasce così, fra mille dubbi e mille incertezze, il più grande album dei Rolling Stones: "Sticky Fingers". Già la copertina è storia: la cerniera lampo (scandalosa) di Mick Jagger ideata da quel geniaccio di Andy Wahrol. E la musica, signori, che musica: blues rock da far accapponare la pelle, riff di chitarra degni del miglior Keith Richards, grinta, rabbia, voglia di stupire, ma soprattutto tanta voglia di mettersi in gioco e rispondere alle tante critiche rivolte al gruppo da giornalisti e critici.

"Sì, facciamo uso di droghe", sembrano voler dire gli Stones, e "Brown Sugar" e "Sister Morphine" sono proprio l'esempio migliore di cosa voglia dire saper rispondere alle critiche e alle provocazioni. Ma in realtà, a non fare una grinza, sono tutti i brani. Difficile pensare che certe canzoni possano essere egugliate da altre band: "Sway" è una ballata dolente, a tratti persino tragica, condita da assoli musicali assolutamente eccellenti (archi, chitarre, un drumming da pelle d'oca); "Wild Horses" è il brano più dolce e discreto dell'intero album, ed è forse uno dei vertici della poesia rolling stoniana; e poi tanto, tantissimo, blues, "Can't You Hear Me Knocking", "I Got The Blues" e il folk di "Dead Flowers" (con chiara citazione di Baudelaire). Impossibile scegliere il brano migliore, si cadrebbe in un giochetto pretenzioso e datato. Quel che è certo è che "Sticky Fingers" possiede un ritmo e una capacità, quasi tribale, di avvolgerti e abbracciarti anche dopo l'ennesimo ascolto, il tutto dovuto grazie ad una perfetta fusione tra rock, blues e folk, grazie alla voce (raramente così sensuale) di Mick Jagger, le genialate di Keith Richards e alla giovane maturità di Mick Taylor che aveva già ampiamente dimostrato, in "Let It Bleed", di non far troppo rimpiangere il defunto Brian Jones). La perfezione di "Sticky Fingers" è dovuta anche alla maniacalità con cui gli Stones realizzarono l'album, impostarono una serie di musiche e un lungo trenino di testi ribelli e scandalosi (al confronto, le allusioni sessuali di "The Last Time" sembrano robetta da oratorio), e lungimiranti dediche musicali, più o meno nascoste all'interno del disco (Gene Vincent, Chuck Berry, Elvis Presley), in onore di coloro che il rock, più che modificarlo, l'hanno pressochè inventato. Non è un caso che l'ultimo brano dell'album sia la funambolica "Moonlight Mile", una ballata sospesa fra la Terra e il Cielo, e un modo per allontanare il rock e avvicinarsi al Nirvana. Ma forse gli Stones non hanno mai creduto in niente, a parte loro stessi.

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