Scie d’argento con impalpabili riflessi d’oro, certe canzoni fanno un’incredibile luce.

E a dispetto della malinconia, e sovente della disperazione, rischiarano luoghi e momenti. Farfalline avvistate a occhi semichiusi in un prato...le aiuta il fatto di essere fatte di niente.

Che anche noi (finalmente!!!), a un certo punto degli ottanta, ci concedemmo il lusso e il piacere di essere pop. A suggerirci di farlo fu un tizio a metà tra il signor Rossi e Oscar Wilde. Che poi “suggerirci” forse non rende l’idea... è più esatto dire che ce lo ordinò proprio.

Chi sa che si prova nel vedere le proprie paturnie uscir dalla stanza su un tappeto volante di mille arpeggi di chitarra? Non so, ma quel che posso dire è: beato chi ha aperto quella finestra. Beato sia quindi Stephen Morissey. Ma anche colui che a quelle parole (e a quella voce) consentiva il volo, ovvero il signor Johnny Marr, mago della chitarra. Che senza quell’aggrovigliarsi di fili, senza quella ragnatela inondata di sole, il novello Oscar Wilde se ne starebbe ancora nella cameretta.

Allora i guru parlavano di recupero del suono Byrds, di jingle jangle, di anni sessanta. Il tutto unito a una attitudine infantile ed egocentrica presa pari pari dal glam rock. Esibizionismo e mancanza. Sogni di gloria e senso di perdita. Certo si possono fare un milione di riferimenti e rimandi, ma il senso della loro musica è meglio spiegato (che so?) dai giacinti disseminati sul palco, dall’estetismo delle copertine, da una voce monocorde che riesce chissà come a restare in aria.

C’è un brano che, pur non essendo il loro migliore, secondo me li descrive perfettamente. E’ “Heaven knows I’m miserable now”. Parte con quel meraviglioso suono tutto intarsi e groviglio, fate conto una pioggerellina di scintille, per poi approdare nel giro di un attimo a una specie di malinconia definitiva. Con la pioggerellina che torna (e ritorna) a comporre un dolcissimo notturno con brio.

Io però è proprio il brio che mi piace…Tipo l’attacco in media res di “William, it was really nothing”, voce e suono un tutt’uno sin dall’inizio e poi due minuti di scampanii (rifrangenti) caldi come la coperta di san Martino. Della stessa pasta anche la successiva “What difference does it make?” per un uno due che stende con la potenza del singolo perfetto, ovvero la scheggia di luce per cui sempre benediremo il buon Marconi. Incredibile lo ying e yang tra musica e parole, come se malinconia e disperazione facessero un giro in ottovolante.

E il resto non è men che favoloso, si accellera...si decellera... si va di ballad ...e di pop cristallino, con momenti preziosi di quasi rock. E comunque è inutile segnalare altri brani, che questo è un disco di soli capolavori.

Ma se proprio devo scelgo “How soon is now” che mi ascoltavo il sabato sera prima di uscire (vorrà dir qualcosa, no?) e che onestamente non riesco a descrivere e “Reel around the fountain” e pure qui mi mancano le parole. Facciamo un lento crescere senza crescere con riverberi di chitarra che arrivano da tutte le parti la prima e ballata spaccacuore la seconda.

Poi i momenti più incalzanti tipo “Handsome devil” e ”Hand iin glove”. E, sua delicatezza, sua intensià, “Please, please, please let me get what i want”, l’ultimo soffio di pallida, pallidissima energia a invocare.

“Quindi per una volta nella mia vita fa che io abbia ciò che desidero, il signore sa che sarebbe la prima volta”

Gli Smiths han segnato un’epoca, ma è stato tanto tempo fa. Sappiamo benissimo che ogni tanto si riverniciano le stanze, Non è questo quindi quello che conta.

Conta solo la bellezza delle canzoni, E qui di belle canzoni ce ne son tante. Son scie d’argento con impalpabili riflessi d’oro, farfalline avvistate a occhi semichiusi in un prato...

Trallallà…

ps Questo album raccoglie i primi singoli con relative b side e sessions radiofoniche. Per me è il loro disco migliore.

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