É una caldissima giornata di Luglio, Estate 2019.A breve sarei finalmente partito per Los Angeles con il mio migliore amico, essendo entrambi innamorati dell’industria musicale e cinematografica; abbiamo entrambi 17 anni e il costante desiderio di scoprire nuove cose, specialmente se si parla di arte.Poco prima di partire per Los Angeles, alla fine dell’ultima sera di lavoro con mio padre per potermi permettere il viaggio, trovo nel ripostiglio di casa un vecchissimo vinile.Non ero sorpreso, ho sempre ascoltato musica in analogico; questo, peró, aveva qualcosa di speciale.La copertina presentava due volti in bianco e nero di un uomo e una donna: l’aspetto interessante é che é difficile stabilire se le due figure siano bendate o se la tenebrosa striscia nera posta sugli occhi sia semplicemente un’ombra.La copertina rispetta semplicemente i canoni di un buon disco new wave di fine anni 70.Allo stesso tempo, Jeopardy dei The Sound é molto piú di un “buon disco”.Lo metto al sicuro dalla polvere onnipresente dello scantinato e mi dirigo verso la mia postazione casalinga preferita: quella del giradischi e delle mia amate casse AR del ‘76.Poggio il disco sul piatto, dopo qualche secondo, inizia “I Can’t Escape Myself”.Lo stile di produzione e gli arrangiamenti minimali, uniti alle chitarre di Borland, fanno sí che il gruppo inglese si distinguesse senza dubbio per originalità nella scena post-punk.Percepivo il songwriting dei The Sound come il piú tenebroso ma allo stesso tempo speranzoso con cui avessi mai avuto a che fare,caratteristica che si ripresenterá durante l’ascolto del secondo album.Il sapiente uso di tastiere in “Heartland” é ciò che mi causa la pelle d’oca la prima volta.L’ascolto in vinile aveva influenzato la mia esperienza, a causa del costante fruscio di un disco parzialmente rovinato, che allo stesso tempo acquisiva maggior fascino.La malinconia devastante di “Unwritten Law” e “Missiles” e i testi espliciti e onesti sono tutt’ora i fattori che mi convincono nel considerare il primo album di Borland e compagni un capolavoro,probabilmente tra i migliori dischi degli anni 80.Si sentono le influenze punk e persino rockabilly di una scena musicale anni ‘50/‘60 ormai scomparsa.Oltre ad essere un disco incredibile da un punto di vista compositivo, lo é anche da un punto di vista fonico:non è esageratamente compresso (come gli album dei The Cure) ed é mixato egregiamente.Ripongo il disco nella custodia, preparo le ultime cose, mi dirigo a Los Angeles, con “qualcosa in piú” nel mio cuore.

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