Prima dei The Who c'erano i The Detours, un gruppo nato per volontà del vivace Roger Daltrey nell'estate del 1961. Al giovane Daltrey (che all'età di 16 anni fu espulso dall'Acton Grammar School) si unì in un primo momento il buon John Entwistle per il solo fatto di possedere un basso ed un amplificatore e fosse già in grado di suonare pianoforte, tromba e corno francese. Di lì a poco fece ingresso nel gruppo un certo Pete Townshend (figlio di un sassofonista ed una cantante), chitarrista e persona molto taciturna per via della separazione dei genitori (medesima situazione per Entwistle), ma con il pregio di essersi avvicinato alla musica sin da bambino che lo avrebbe aiutato a sviluppare una ricercatezza creativa che in futuro avrebbe contribuito a farlo emergere con forza. Ad Entwistle e Townshend si aggiunsero il batterista Doug Sanden ed il cantante Colin Dawson che abbandonerà poco dopo la band, lasciando definitivamente il ruolo di cantante al capace Daltrey.
I Detours si esibivano prevalentemente nella zona Ovest di Londra, tra Hammeresmith, Shepherd's Bush e Acton per 10 sterline a serata, con un repertorio tra brani strumentali di Shadows, Venture e rock'n'roll anni Cinquanta con composizioni rhythm & blues. L'idea di cambiare il nome venne suggerita da Richard Barnes (che diverrà poi il biografo ufficiale del gruppo) e così fu adottato The Who. Altro grande problema affrontato con risolutezza riguardava Sanden, il cui stile datato (che peraltro costò anche l'audizione presso la Philip Records) non era ben accetto dagli altri, e portò ad un volontario abbandono della band. La ricerca di un nuovo batterista da parte degli altri tre portò al reclutamento di tale Keith Moon (dall'aspetto ancora adolescenziale) a seguito di un provino passato alla storia. Il giovane Keith presentatosi con abiti dai colori sgargianti e capelli tinti di rosso nell'assistere all'audizione di un altro aspirante, esclamò ad alta voce: "Io so fare di meglio". Salito sul palco fu quella carica esplosiva (..riuscì a rompere un paio di bacchette ed il pedale della grancassa..) che Keith manifestò nel suonare impressionando favorevolmente Roger, John e Pete, che lo assoldarono senza indugio, a patto di riparare i danni causati durante la rumorosa prova di assunzione.
In breve tempo Pete Meaden che voleva fare degli Who il gruppo-bandiera del movimento mod, ne divenne ben presto il manager, cambiando ancora il loro nome in The High Numbers e dando modo ai quattro di esibirsi al The Scene (vicino Wardour Street) i lunedì sera, proponendo rhythm and blues. La meta successiva è rappresentata dalla pubblicazione seppur di una cover, del 45 giri di "Got Love If You Want" con il titolo di "I'm The Face" (con b-side "Zoot Suit" già realizzata dai The Showmen), che non raggiunse le vendite sperate e portò al licenziamento di Meaden. Un periodo non propriamente felice per il gruppo che affrontando una nuova crisi identitaria e un immediato ritorno al nome The Who, dovette ulteriormente sopportare il deludente provino con la Emi che instradò Roger, Pete, John e Keith tra le mani di Kit Lambert e Chris Stamp che decisero di investire i loro risparmi sulla crescita della band. Townshwend non ha mai dimenticato l'importanza di Meaden (che morirà nel 1978) a cui invierà ad ogni Natale un nutrito assegno per tutta la vita in segno di riconoscenza.
Nel gennaio 1965 la band dopo aver firmato con la Decca da alle stampe il singolo "I Can't Explain" (alle cui registrazioni aveva partecipato il giovane turnista James Patrick Page), dalla smaccata timbrica beat che ottiene un buon riscontro come il boogie di "Anyway, Anyhow, Anywhere" riuscendo a far lievitare interesse intorno ad un gruppo noto, ma pur sempre esordiente. Il passo successivo fu la pubblicazione del primo Lp anticipato dalla title track che girava intorno ad un geniale giro di basso, un cantato irriverente e un ritmo sospeso che unitamente alla chiassosità melodica ha tutti i numeri per entrare nelle classifiche che contano e nelle teste dei giovani in cerca di un'identità musicale alternativa. Una perfetta combinazione tra musica e parole da cui emerge anche un ironico ma palesato richiamo autodistruttivo ("Hope I die before I get old": Spero di morire prima di invecchiare"), aiutano ad incarnare le vesti di inno generazionale. "The Kids Are Alright" è un brillante amalgama tra melodie vocali e propizi passaggi strumentali in grado di ambire all' inno mod. Una chitarra flamenco da il via ad "Out In The Street", il cui incedere rock guadagna terreno fondendosi fedelmente con schegge di rhythm & blues amplificandone il risultato. Una (maggior) serietà di interpretazione si percepisce con "The Good's Gone" in cui la profonda voce di Daltrey si dimena in buona compagnia tra i guizzi chitarristici ed il piano di Nick Opkins.
Un esordio che è senza dubbio espressione di una riuscita compattezza sonora attraverso la quale la band riesce con impegno a dare contezza delle proprie capacità, maturate con le regolari esibizioni senza fine a Soho, che hanno permesso agli Who di esprimere alla perfezione cosa significasse fondere l'energia del rock ‘n' roll con quella fisica. Un modo nuovo che aveva in brani coinvolgenti la forza per imporsi ad un pubblico anche adulto, in grado di apprezzare l'estrosità della proposta.
Laddove "La-La-La Lies" (che sarebbe dovuta uscire come singolo) esprime la solarità del british sound dell'epoca, è "It's Not True" a conquistare l'ascoltatore per la suggestività dei cori. Con l'ironia ed un ritornello intrigante è "Much Too Much", in cui Townshend riflette di una situazione affettiva difficile che Daltrey interpreta in maniera spassosa, sapendo di esserne il protagonista (Your love is hard and fast - Your love will always last - If it's you I need - I've got to pay the levy - Got to pay - 'Cause your love's too heavy on me: Il tuo amore è difficile e veloce - durerà per sempre - Se ne hai bisogno - Dovrò pagare un prezzo - E lo pagherò - Perché il tuo amore è davvero troppo impegnativo per me). Il doveroso tributo è riservato al grande James Brown con "I Don't Mind" (King, 1961) e "Please, Please, Please" (Federal Records, 1956), due pregiatissimi rhythm & blues che impreziosivano la set list degli esordi.
Dodici i brani di questo long-playing, da cui è possibile percepire un'elaborata e ferma volontà di dare espressione al rock, inteso senza regole e privato di quei tratti che lo avrebbero collegato ai vari sottogeneri che ne deriveranno in futuro. Una immagine nitida in cui (più di) una generazione rockers alternativi ne subirà il coinvolgimento, alimentando un interesse oltremisura per un disco - che a detta della stessa band fu registrato anche in tempi troppo stretti -, in grado di simbolizzare un'urgenza espressiva che con intraprendenza, sanciva che al fianco di Beatles e Rolling Stones poteva anche esserci altro.
[Per il mercato statunitense il disco verrà pubblicato con il titolo: "The Who Sings My Generation" nell'aprile del 1966, privato del brano "I'm A Man", mentre la successione tra "The Ox" e "A Legal Matter" viene invertita, lasciando la chiusura dell'album a "Instant Party". Da consigliare vivamente l'acquisto della Deluxe Edition che - oltre a togliere un po' di polvere dalla registrazione originale -, ci consegna in un'unica confezione i singoli di "I Can't Explain" e "Anyway, Anyhow, Anywhere", permettendo di tuffarsi in un'epoca unica attraverso bonus e unreleased tracks che potranno fare la gioia non solo di appassionati e completisti].
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