Marrani che non siete altro. Neanche una misera recensione sugli Youngbloods. Ci provo io allora ad omaggiare il loro capolavoro “Elephant Mountain”, si lo so la copertina sembra quella di un videogioco anni ’80.

La storia della band è la storia di Jesse Colin Young, che rispettivamente nel ’64 e nel ’65, giovanissimo, compone due straordinari album che potremmo definire un ibrido tra Tim Hardin e Bob Dylan, con tanto talento compositivo e creatività da vendere. Vi consiglio vivamente di recuperarli se siete fan di Dylan.

La stoffa del cantautore di primissima fascia fu abbandonata per bieca operazione commerciale, gli Youngbloods, che non potevano chiamarsi altrimenti visto l’apporto esclusivo di Jesse, furono gettati nel calderone British Invasion per tentare di sfondare classifiche al suono di un pop zuccherino d’oltreoceano che tanto faceva strappare i capelli alle ragazze.

Ma la cosa non funzionò, o meglio funzionò anche forse troppo bene, perché come certi Kinks si sforzavano di sbeffeggiare il sound americano, Young pensò bene di sbeffeggiare il british sound. Il talento creativo di Jesse rimaneva così impigliato in una rete in mezzo all’oceano ed il primo album del ’67 lo dimostra in pieno, un disco che vuole suonare british ma è una messa in scena melodica dove il talento di Jesse rimane invischiato in un suond troppo edulcorato per le sue composizioni intricate.

E dunque avviene la trasformazione, quello che era un cantautore pensieroso e profondo si trasforma in un menestrello di pop allo zucchero filato e l’operazione riesce alla perfezione lo stesso, nonostante quella sia musica lontana dalle corde della sua anima, il talento quando c’è strappa le reti e attraversa gli oceani.

Così al primo disco dobbiamo la “Get Together” di Dino Valenti che li rese per qualche periodo celebri, paradossalmente scalò le classifiche due anni dopo, nel ’69, quando la summer of love era già cotta e sepolta. Nel primo album troviamo altri brani stupendi per citarne alcuni: “Tears Are Falling”, “Foolin’ Around (The Waltz)”.

Ma voglio venire al capolavoro di Jesse, quell’”Elephant Mountain” del ’69 in cui ogni singola nota genera dopamina e ringiovanisce gli spiriti che ci dimorano. Jesse è un dio della musica gentile, quella che ti prende per mano e insieme ti fa fare una passeggiata sorridente in un parco assolato mentre tutt’attorno è grigio e piove. È un disco sunshine pop, esiste il sunshine pop? Se non esiste lo invento io, o meglio lo ha inventato Jesse Young.

È innanzitutto un disco poliedrico, definirlo folk, pop o rock sarebbe riduttivo, infatti vi troviamo lunghe jam con elementi jazz come in “On Sir Francis Drake, dove sembra di sentire ondeggiare la prua del pirata della regina d’Inghilterra, una canzone prog a tutti gli effetti. C’è il folk stralunato di “Darkness, Darkness”, ci sono le vibrazioni positive di “Sunlight”. Il disco è tutto una vibrazione per lo spirito. “Beatiful” è un blues-boogie inno alla gioia. "Rain Song (Don't Let the Rain Bring You Down)" altro inno contro la metereopatìa, un’iniezione di sole pop con bellissimi cori e chitarre che giocano con lo scrosciare dell’acqua che accompagna il pezzo. Una divagazione free-jazz: “Trillium”, e anche quando Jesse prova a scrivere un testo triste come in “Quicksand” la composizione con i violini e le trombe in sottofondo ci addolciscono e ci sciolgono facendo diventare le sabbie mobili una piscina di argilla dove ballare a ritmo lento.

Il disco ci saluta con Ride The Wind”, una delle composizioni più dolci e delicate che abbia avuto la fortuna di ascoltare fino ad ora, una perfetta alchimia tra jazz e folk, una jam che dura più sei minuti ma risulta fresca come una fugace brezza di primavera.

Jesse ti voglio un bene dell’anima ed hai raccolto un cumulo di polvere rispetto a ciò che hai seminato, però sono sicuro che come hai sempre composto musica col cuore tu abbia condotto e stia coduncendo una vita autentica, raggiante di felicità, come la tua musica che non mi stancherò mai di ascoltare.

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