I Therion sono oggi da annoverare fra i gotha del metal gotico più audace e sperimentale. Ma in origine i Therion erano una band dedita ad un rozzo death metal, venato solo a tratti da quelle intuizioni che con il tempo sarebbero germogliate e fiorite, fino a prendere il sopravvento nei lavori della maturità. Se album come "Of Darkness..." and "Beyond Sanctorium" delineano un death metal, seppur già intelligente e prodigo di guizzi vincenti, ancora circoscritto entro gli angusti confini del genere,  in "Symphony Masses: Ho Drakon Ho Megas" inizia ad emergere con prepotenza il vero germe del genio artistico dei Therion, pronti, almeno con la testa, ad intraprendere un percorso di emancipazione sempre più arduo e coraggioso.

"Lepaca Kliffoth" è il salto di qualità: giunti al loro quarto lavoro, i Therion fanno già parte di un altro pianeta.

Dico questo perché, se nel 1995 (anno di uscita dell'album) l'espressione "death metal sperimentale" richiamava inevitabilmente alla mente le divagazioni jazz e fusion di band come Cynic, Atheist e Pestilence, i Therion s'imposero invece con un'inedita quanto bizzarra formula che vedeva flirtare heavy metal, musica classica, alambicchi etnici ed oscuro misticismo. Se però all'epoca suonò davvero come qualcosa di nuovo, oggi "Lepaca Kliffoth" ci appare un po' vetusto, fagocitato dalle arditezze e dalla magniloquenza dei successivi lavori, a partire proprio da quel "Theli", capolavoro indiscusso della band, che andrà ad esasperare le soluzioni in esso sperimentate.

"Lepaca Kliffoth", tuttavia, non va semplicemente visto come una tappa necessaria di un'incredibile evoluzione, lo spartiacque fra i vecchi e i nuovi Therion. "Lepaca Kliffoth" è in realtà un episodio unico nella carriera degli svedesi, per soluzioni e verve creativa. Un buon lavoro, penalizzato, a mio parere, solo dalla voce monocorde del master-mind Christofer Johnsson (che in futuro deciderà saggiamente di cedere il microfono ai famigerati cori operistici e a cantanti professionisti). Salvo questo dettaglio, che poi è da leggere come un disappunto personale, il sound dei Therion è già incredibilmente maturo, forgiato con cura e perizia da una band che deve ancora dimostrare tutto: una band che suona (e suona bene!), costruisce, inventa, assembla, cuce e suda le proverbiali sette camice per confezionare un prodotto vincente ed originale.

In altre parole, "Lepaca Kliffoth" vince per la genuinità, per la convinzione e per il coraggio, consegnandoci una band ancora "nuda", non ancora mascherata, non ancora nascosta dietro al paravento rocambolesco di una formula che andrà con gli anni a perdere inevitabilmente il carattere rivoluzionario delle origini. Personalmente parlando, la cosa che più rimprovero a Johnsson è di aver perso nel tempo la spinta avanguardistica che lo aveva contraddistinto fin dagli inizi. Non di meno, la pecca di aver totalmente rinunciato ad affinare la sua tecnica e il suo stile, finendo per appiattirsi, forte di una formula vincente, su sonorità mutuate dall'heavy metal classico, cavalcando l'ondata power metal (aaarrggghhh!!!!) di fine anni novanta. In "Lepaca Kliffoth", invece, Johnsson ci dava ancora dentro, sia per quanto riguarda le chitarre che le tastiere. Fantasioso come autore ed impeccabile come musicista.

Parlare di death metal in senso stretto è infatti fuori luogo, e se la pittoresca musica dei Therion è già nei fatti al di fuori di ogni possibile catalogazione, sono rinvenibili significative analogie con i Celtic Frost di "Into the Pandemonium". E non a caso troviamo come ospite Claudia Maria Mokri, il soprano che "illuminò" il percorso dei Frost proprio in quel capolavoro. E non a caso c'imbattiamo in una superba riproposizione della leggendaria "Sorrows of the Moon", atto di devozione verso l'arte di una band che da sempre costituisce la stella polare del cammino di Johnsson. E proprio la verve sperimentale dei Celtic Frost, intesa più come pulsione contaminatrice che come vera e propria rivoluzione stilistica, ad animare "Lepaca Kliffoth".

Del resto, più di una volta Johnsson ha chiarito che l'evoluzione dei Therion è stata nel tempo strettamente correlata ai vincolanti problemi di budget, dato che è proprio con i crescenti introiti economici che si è venuta via via a concretizzare la possibilità di realizzare idee da sempre covate, come quella di utilizzare un coro operistico o una orchestra vera. I quattrini nel 1995 ancora non c'erano, e quindi i Nostri si dovettero accontentare di tastiere e delle sporadiche comparsate canore della Mokri e del baritono Hans Groning. Poco male: l'album gode già di una produzione limpida e professionale che è in grado di mettere in risalto tutte le sfumature di questa musica unica e ricca di spunti.

I Therion targati 1995 irrompono nelle nostre orecchie con "The Wings of the Hydra", superba opener che ci frastorna con possenti riff, percussioni baccanali ed un sound fresco ed al contempo arcano (universale è la parola giusta?). Un sound che "spacca", ma che al contempo non rinuncia a melodie inedite (per il serioso mondo del metal) e così bizzarre da risultare divertenti. La voce di Johnsson non è più un growl, ma un urlo becero che sembra provenire da quelle bizzarre maschere di legno dai grandi occhi e dalle grandi labbra, utilizzate nei rituali da certe popolazioni primitive. Le sue chitarre macinano riffoni schiaccia-sassi, scale orientali e neoclassiche, arpeggi e pregevoli assoli. Sublimi gli intrecci con le tastiere che tessono trame suggestive e a volte dementi, conferendo un tocco barocco (per non dire pacchiano!) alle composizioni. Piano, flauti, violini, clavicembali, citar indiani cori, orchestre intere e chi più ne ha ne metta escono dai tasti dell'ottimo Johnsson: un esercito di suoni chiamato ad animare composizioni brevi ma dinamiche, per quaranta minuti in cui sarà davvero difficile annoiarsi. Il drumming fantasioso e scoppiettante del simpatico Piotr Wawrzeniuk, dal canto suo, si assesta su tempi vivaci e progressivi, sempre pronto ad assecondare la verve delle chitarre e gli arzigogoli tasti eristici (quanto ci manchi, Piotr!).

In "Lepaca Kliffoth" il death metal cede così il passo alla pomposità del metal classico, via via rischiarato da folli schiribizzi arabeggianti ("Melez"), rocambolesche fughe progressive ("The Beauty in Black"), aperture psichedeliche ("Darkness Eve") e le proverbiali parentesi operistiche. Come non citare, a tal riguardo, il binomio "Arrival of the Darknest Queen", breve interludio strumentale, e "The Beauty in Black", che si fregia del romantico duetto della Mokri e di Groning, le cui voci volteggiano e s'intrecciano in atmosfere da sogno in uno dei pezzi più belli e struggenti mai scritti da Johnsson.  Il contributo filosofico dell'amico Thomas Karlsson, appartenente anche lui all'ordine misterico del Dragon Rouge (a cui l'album è dedicato: "Lepaca Kliffoth" sta per "Cavalca il Drago"), conferiscono al tutto un'aura mistica. Componente non secondaria nella musica dei Therion, e che vede la sua apoteosi nella title-track, oscura processione di formule incomprensibili, che finisce per esplodere in corse affannose di monaci impazziti, recuperando così la violenza e il fascino oscuro dei primi lavori. Episodio, questo, che non a caso richiama gli Shadowseeds dello stesso Karlsson, usciti il medesimo anno con il buono "Dream of Lilith". 

La composita "Evocation of Vovin" chiude con fantasia e trovate barocche un album unico, rivoluzionario, che oggi potrà sembrare superato, ma che in realtà ci consegna i Therion più sostanziali, creativi, pragmatici, non ancora vittime di un'invenzione geniale che a poco a poco li corroderà fino ad imprigionarli in una incorruttibile corazza. Una corazza che andrà a soffocare il principio cardine della musica dei Therion: quel cavalcare il Drago, quel volare alto e liberi che li ha resi un'entità unica nel panorama metal degli anni novanta.

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