Tim Buckley è stato un sognatore, un utopista, lontano finchè ha potuto da ogni logica commerciale, esploratore del linguaggio musicale non per la sperimentazione fine a se stessa, ma sempre alla ricerca di forme nuove che gli permettessero di esprimere l'inesprimibile, in un titanico sforzo romantico teso a raggiungere l'assoluto, le stelle più lontane dell'universo, o il che è lo stesso, il significato ultimo dell'esistere.
La sua sensibilità lo porta giovanissimo ad appassionarsi a compositori come Beethoven, Shostakovic, Prokofiev, Berio e agli esperimenti più radicali portati avanti dal free-jazz di quegli anni da Coltrane, Ayler, Sun Ra, o al nascente Jazz-Rock di Miles Davis. Coltiva un ammirazione anche per i folk-singer, cantautori come il Dylan di "Blonde on Blonde" e Fred Neil. E proprio nelle vesti del cantautore fa l'ingresso nel mondo della musica, prendendo sicurezza di album in album , trasformandosi da delicato folksinger a raffinato compositore, e mettendosi fin da giovanissimo in luce per una voce per la quale non esistono superlativi abbastanza efficaci: il suo chitarrista Lee Underwood disse che Buckley fu per il canto ciò che Coltrane fu per il sax, Hendrix per la chitarra e Cecil Taylor per il piano.
Eppure su "Lorca", anno 1970, il canto di Buckley è misuratissimo, quasi un esercizio zen. Non è certo l’album adatto a chi vuole sentire le evoluzioni sensazionali del suo canto, e neppure per chi si accosta distrattamente alla sua musica pensando di trovarsi davanti un album cantautorale: anche se la dedica è per Garcia Lorca, quest'album può essere accostato tranquillamente come esperienza alla metafisica di De Chirico, al "Libro dell'Inquietudine" del grande Pessoa, al Montale di "Ossi di Seppia". Disco assolutamente privato, è come se Buckley fosse solo davanti allo specchio e si osservasse: mancano l'impeto romantico di "Happy Sad", e le inquiete sperimentazioni avanguardiste di "Starsailor", ma qui c'è più purezza.
Ogni orpello è bandito, il ritmo è praticamente assente.
Il viaggio comincia con Lorca: cupe frasi dell'organo si insinuano nella mente, dieci minuti ad aggirarsi in un labirinto di spettri, un tragico cercarsi e non trovarsi, incubo psicanalitico sulla condizione umana, e in ultima analisi sulla sua estrema solitudine. Pochi brani sono arrivati così a fondo ad esplorare l'angoscia: forse, da lati diversi, solo Sister Ray dei Velvet Underground, il Not Available dei Residents, il Frankie Teardrop dei Suicide nel rock hanno saputo raccontare così bene il male di vivere. Nel drammatico finale il cantante sembra venire letteralmente inghiottito dal buio, perdersi nel nulla oltre l'universo.
Il secondo brano è Anonymous Proposition, in cui la chitarra e il contrabbasso si contorcono liberamente come sterpi su di un paesaggio naturale solitario: qui Buckley è veramente l'ultimo uomo sulla terra. C'è qualcosa di irrimediabilmente perduto nell'atmosfera metafisica di questo brano, che musicalmente richiama alla mente il Sun Ra di "Atlantis" e i richiami ancestrali di Albert Ayler.
Il terzo brano, più pacato e naturalista, recupera per un momento la melodia e il ritmo delle congas, e nonostante nel disco sia un episodio minore, tuttavia l'atmosfera è solo falsamente serena: l'ambiente domestico sembra solo un lontano ricordo evocato in uno stato d'incoscienza.
La quarta traccia, e terzo grande brano del disco è Driftin', lenta ballata blueseggiante che da sola può spiegare il senso dell'intera discografia di Buckley: i pigri sciaquii della chitarra riportano alla mente i paesaggi marini tanto cari a Buckley, ma l'anelito a perdersi in quei flutti, ad annullarsi completamente, l'assoluta mancanza di energia fisiche e mentali, il lasciarsi andare alla deriva ne fanno quasi la lettera di un suicida senza più nemmeno la forza di suicidarsi. I lamenti a bocca chiusa del finale, sono soltanto dolore. Tutti i musicisti del gruppo, sono di una discrezione esemplare. (I Dirty Three potrebbero essere accostati per spirito, se non per esecuzione all’ensemble di "Lorca"). É assolutamente incredibile come Driftin' e Anonymous Proposition evochino delle sensazioni quasi tattili.
L'ultimo brano è Nobody Walkin' che riporta alle atmosfere gitane di Gypsy Woman, con Buckley finalmente scatenato nelle sue impossibili peripezie vocali, creando un climax infuocato per questo trascinante delirio erotico; per quanto eccellente, questa che può essere considerata l'unica canzone a tutti gli effetti di "Lorca", risulta essere assolutamente fuori contesto in un disco così definitivo.
Nel disco successivo, "Starsailor", Buckley partirà di nuovo per l’utimo grande viaggio tra le stelle, ma pur toccando vette altissime non riuscirà a doppiare la commovente sincerità di questo disco. Non voglio dar voti a "Lorca", perchè condivido quello che Manganelli ha scritto: "la parola capolavoro ha qualcosa di odioso, di prevaricante. Se un'opera mi viene presentata come un capolavoro, si suppone che io non muoverò obiezioni; cadrò in uno stato stuporoso, dirò "oh!", "ah!", congiungerò le mani in atto di supplica, come a dire "pietà di me"; posso anche trattenere il respiro e ruotare le pupille. Il capolavoro non si discute; merita solo "il culto della personalità". E' tirannico; limita la libertà di stampa e di parola."
Non darò il voto. Però ascoltatelo.
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