I Toad (rospo, in inglese) sono un quartetto svizzero, composto da Werner Froehlich (basso), Benj Jäger (voce), Cosimo Lampis (batteria) e Vittorio (Vic) Vergeat (chitarra). L'unico musicista di origini svizzere era però il bassista, il cantante era islandese, mentre gli altri due erano italiani.

Il gruppo ruotava intorno al carisma e alle capacità del funambolico chitarrista (reduce da un esperienza con gli Hawkwind), e nel 1971, prima dell'abbandono del cantante, ci lasciarono un capolavoro di hard-rock, Toad appunto.

L'album è composto da 7 tracce, e risulta facile catalogare il loro stile simile a quello dei maestri, Led Zeppelin, Cream, Jimi Hendrix tanto per capirci. Si comincia con "Cottonwood Hill", giusta per entrare nell' ottica del disco. Riff alla Black Sabbath e rullate, la canzone sembra non fermarsi mai. C' è pure un basso instancabile che possiamo sentire lungo tutto l' album disegnare rotte tutte sue. E per far felici tutti, un assolo di chitarra che sublima il cambio di tempo che avviene nel finale. Pezzo tagliente, fracassoso. Grant pezzo.

"A Life That Ain' t Worth Living" continua sulla stessa falsa riga, leggermente inferiore alla canzone precedente ma comunque energica, che se ne stà bene tra "Cottonwood Hill" e "Tank", che viene dopo. Questa volta è la chitarra che la fa da padrona, con urla distorte e un wha wha insistente. Possiamo apprezzare appieno lo stile alle 6 corde di Vergeat, pastoso e acuminato, capace di dare la giusta enfasi ai vari momenti della canzone. A differenza di altri, un musicista che non si esprime con eccessi di ego, ma a cui piace enfatizzare con i suoi guizzi la canzone, quando bisogna farlo.

Altra prova della sua bravura ci viene data nel blues "They Say I' m Made". Traccia in stile Red House di Hendrix, con le dita del chitarrista che corrono sulla tastiera (della chitarra naturalmente), mentre basso e batteria ne scandiscono i ritmi. Memorabile il finale, che ricorda molto l'assolo di Heartbreaker di Jimmy Page. Ah, se fosse nato tre anni prima ‘sto Vergeat... Ma il capolavoro dell'album arriva ora, con gli undici minuti pieni di "Life Goes On". Inizio sabbathiano che ci conduce su di una collina verdeggiante, piena di fiori, dove possiamo scorgere il pendio scosceso che c' è dall'altra parte, che tra poco andremo ad affrontare. Perfetta la voce adagiata sulla chitarra acustica, sovrapposta a dei cori.... Ed ora comincia la discesa, con il vento agitato dalle note della chitarra che ci spettina i capelli. Accordi potenti ci conducono all'assolo, potente, perfetto, che ci riporta al tema con la quale eravamo partiti.

Tocca ora a "Pig's Walk", canzone che vede chitarra e batteria in risalto, a cui viene dato libero sfogo. Prima il wha wha (molto usato da Vergeat) e poi i tom, fanno terminare la canzone, cui segue la traccia finale, molto diversa dalle precedenti, "The One I Mean". È infatti un pezzo molto pensieroso, di atmosfera, con solo chitarra acustica e voce che stempera il clima teso che si era venuto a creare.

Che dire? Un disco che consiglio di ascoltare, ben registrato, che non stanca e che vi farà senz' altro conoscere una band in forma, una tra le migliori del genere che popolavano la foltissima scena underground di quei tempi. Un bene forse che sia rimasto così ben conservato all'interno di essa, perché non c'è bisogno di vendere milioni di copie o avere praterie di fans.

Come dice Vergeat sul retro della copertina: "True music is forever".

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