E’ alquanto istintivo (ma anche troppo facile) nell’italietta odierna della moralità berlusconiana e dell’ascendente “velina-starlette-parlamentare system” dar credito a pregiudizi, talvolta sensati, riguardo alle molteplici attività femminili e in quanto al “reale” merito del gentil sesso, soprattutto quando si parla di belle ragazze. Così, anche nel circuito indipendente, si iniziano ad osservare fenomeni di effettiva “vendita” di immagine, corredata da prodotto musicale preconfezionato, che si ritrovano già da tempo nel mondo della musica popolare.

Bene, premessa fatta, questo non è affatto il caso di Tiffany.

Ho avuto modo di conoscerla personalmente, scoprendo che oltre ad essere evidentemente bella e molto simpatica, è anche dotata di un’enorme cultura musicale e, soprattutto, autrice integrale di tutti i suoi brani.

Nonostante i sovracitati pregiudizi l’abbiano ampiamente attaccata, come dimostrano anche le precedenti e - mi permetto di asserire - anche un po’ignoranti “pillole” a lei rivolte su DeBaser, Tiffany non ne è parsa affatto indebolita o affranta.

Anzi, è andata avanti per la sua strada, orgogliosa del suo talento. A testa alta.

Quindi dopo una gloriosa esperienza come Suicide Girl, un paio di dischi  alle spalle (l’electro sbarazzina  ma gradevole di “Undercover” e il più rockettaro “Brain for Breakfast”) e un singolone electropop (“Pazza” del 2007) decisamente orecchiabile che non ottenne il meritato successo, Tiffany assume tinte indubbiamente più oscure rispetto ai precedenti lavori.

“Peoples Temple” è intriso di oscurità, di angoscia profonda e autolesionista.

Il disco segna una decisa rottura rispetto ai precedenti lavori: meno Peaches e più Joy Division, l’affascinante bolognese d’adozione sembra voler comunicare l’esplosione un disagio intrinseco e soffocato, mediante urla distorte che a tratti ricordano la ex collega Miss Violetta Beauregarde e suoni taglienti e grondanti (ma va?) anni 80.

Ma non proprio quelli glitterati di Madonna e dei Duran Duran.

"Peoples Temple" ti porta dentro a una discoteca abbandonata, un tempio della decadenza: la palla luminosa ha perso molte tessere e gira lentamente, scricchiolando; i divanetti leopardati sono lesionati e portano i segni dei tempi fastosi che furono; sulla pista impolverata non c’è più nessuno, aleggia solo l’inettitudine patologica agli anni ’10 del ventunesimo secolo, troppo veloci, seriosi, violenti. Al capolinea di un’era post-industriale ci troviamo disorientati, privi di qualsivoglia prospettiva e forse anche un po’ impauriti.

3 Circles”, sfiorando il noise, non poteva che essere l’apertura migliore al disco, degno prologo ai deliri nichilisti che seguiranno.

Spiccano tra questi i virtuosismi industrial di “Storycide”, “Still in my Head” che è praticamente post-punk, “Ghoul” che ricorda vagamente il dance-punk degli ultimi Yeah Yeah Yeahs di “Zero”.

Solo “Miracle” si distingue per trasmettere una certa positività: pezzo solare ma velato di un grigiore tipicamente new wave, avrebbe potuto essere una vera e propria hit negli anni 80.

Show Me What You Got” riecheggia un Trent Reznor delle origini, concludendo dignitosamente un album indiscutibilmente piacevole, fresco e promettente, che brilla sulla melma indienoia-revival ormai pane quotidiano del circuito “alt” italiano.

Anche se Tiffany guarda chiaramente all’estero (avendone tutte le potenzialità, come non darle torto?) piuttosto che al belpaese, dovremmo essere fieri di annoverarla tra i migliori prodotti della scena elettronica del nostro paese.

E aspettarci ancora molto da lei.

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