Nell’estate del 1969 si consuma la rottura definitiva tra Marc Bolan e Steve “Peregrin” Took, per un paio di annate protagonisti del sottobosco folksy e fricchettone londinese (neanche così sotto, poi, visto che riescono a sfiorare la top ten anche grazie alla sponsorizzazione di John Peel, che, tra le altre cose, se li porta in auto ai suoi DJ set. Precursore anche in quello, la buonanima; una delle tante, in questa storia).

Took viene accompagnato alla porta dopo un disgraziato tour americano, contemporaneo ai Tre Giorni di Pisenlove e Musica, che affronta d’umore nero già sapendo di essere fuori, ma costretto da minacce di ritorsioni finanziarie. La gestisce come sa, completamente e perennemente ultra-fatto, ignorando oltretutto esattamente “di cosa”, con Bolan sempre più irritato per quello che vede come un atteggiamento da sabotatore da parte dell’ormai ex-amico & sodale. Il quale, una sera, nel contesto di una marmaglia di gruppi elettrici che suonano prima e dopo di loro, ritiene opportuno attirare l’attenzione del pubblico, che forse non si era neanche accorto che il tesissimo duo avesse iniziato a suonare, denudando la parte superiore del corpo, slacciando la cintura dei pantaloni e fustigandosi schiena, spalle e petto.

Non sono soltanto le bizzarrie di Took a condannarlo all’estromissione; Bolan non sopporta più tanto neanche le amicizie freak di Steve, che si intrattiene spesso con gentaglia come Mick Farren o Twink, controproducente per l’ ”immagine” del duo. Al riguardo, pare che Took abbia obiettato: “Quale Immagine? Lo sanno tutti che sono un tossico!”

Non bastassero queste lievi divergenze tra i due, il tossicodipendente diventa anche amico dell’idolo di Mark, quel Syd Barrett che il Nostro oltretutto accompagna alla conga in Rhamadan, Sacro Graal barrettiano disvelato da quel raschiare il fondo del barile che fu Wouldn’t You Miss Me, raccolta curata da Gilmour un lustro prima che El Cid mollasse gli ormeggi della sua vita terrena. Niente di che, alla fine; una jam informe e non, ovviamente, Interstellar Overdrive, oltretutto carica di overdubs. Ma ci avevamo favoleggiato per anni, ragazzini innocenti e speranzosi ch’eravamo.

Non bastasse ancora, a indisporre il Reuccio colmando di sdegno e risentimento il suo cuore d’elfo, ci pensa la richiesta sempre più insistente del Peregrin di inserire nei dischi qualche pezzo suo. L’Affronto a questo punto diventa Massimo Assoluto Improponibile:

M.A.I.!

Prevedibile per tutti, data la proverbiale autostima del capo della ditta, tranne che per Took, che se ne va appunto per il suo destino, tra le braccia degli amici di Ladbroke Grove, avvolto in una nebbia che gli impedirà di esprimere compiutamente il proprio talento, che pure meriterebbe una trattazione a sé, e morendo tre anni dopo Bolan, ufficialmente soffocato dal nocciolo di una ciliegia. Diciamo. Però finalmente benestante, avendo vinto una disputa legale poco prima, a mo’di macilenta consolazione.

Archiviato il povero Steve Took, Bolan e Tony Visconti (c’è Bowie che nel frat-time prende appunti) reclutano Mickey Finn, di cui non si offende la memoria se si afferma che fu preso essenzialmente per la somiglianza fisica con il suo predecessore. (La logica del kleenex non era così riprovevole per il Cigno, e quindi il ricambio aveva da essere indolore. Tanto, chi se ne accorge? Il povero Finn ad un certo punto deve incassare lo sguardo storto di Bolan quando decide di tagliare la barba di cui fa mostra nel retrocopertina di questo suo debutto agli ordini del futuro Guerriero Elettrico, e che lo faceva tanto somigliare all’esiliato).Col nuovo acquisto, e con rinnovato entusiasmo da parte di Bolan, il minimale team si rimette al lavoro per partorire uno degli esempi più calzanti di album di transizione, l’ultimo a nome Tyrannosaurus Rex, "A Beard of Stars". Il quale, programmaticamente, inizia con un "Prelude" fatto in pratica di sola chitarra elettrica, la Stratocaster nuovo acquisto di Mark.

Inaudito, se si considera il percorso del duo fino ad Unicorn. In realtà, la direzione aveva iniziato a virare vistosamente verso quel suono elettrico che farà la fortuna dei T. Rex già da quando Took era ancora in formazione. A luglio del 1969, infatti, il 45 “King of the Rumbling Spires/Do You Remember” era stato un esperimento interessante, soprattutto la facciata A, ancorché dal successo non travolgente (non raggiunse la Top 40). Oltretutto, aveva scatenato le critiche di molti fans oltranzisti (una delle piaghe dell’umanità) e gli strali della comune freak che al momento rappresentavano buona parte della loro fan-base, e che lo ritenevano troppo “commerciale”(il dibattito sulla definizione è vecchio come il cucco e non se n’è mai usciti indenni. Nei decenni Fedeli).

Bolan capisce che per ottenere ciò che vuole è necessario proporre il cambiamento in modo più graduale. In tal senso, A Beard Of Stars rappresenta un passo indietro rispetto al singolo di cui sopra, ma anche una mossa di grande intelligenza tattica. Tant’è vero che Mark, quasi a tranquillizzare, subito dopo l’intro piazza un classicone della freakerie acustica come "A Daye Laye", tutta Amore Universale e melodia consolatoria ed ottimista, nel solco già segnato dai tre lavori precedenti, ma con in più la sensazione di uno strano stato di grazia che ne pervade la penna, in questo come in diversi altri episodi dell’album.

Niente di strano, considerato che la sua vita privata è, in questo periodo, particolarmente felice. Sposa June Child, ex-ragazza di Barrett e segretaria della mitologica Blackhill Enterprises (la società che gestiva i primi Pink Floyd, che organizzò i festival gratuiti ad Hyde Park e seguì speranzosa Barrett nel suo percorso da solista, mollando Waters, Wright e Mason al triste destino di futuri multimiliardari), e la sua vena creativa evolve in forme e direzioni più accessibili e strutturalmente più complete rispetto al trittico precedente. Prendiamo "Pavillions of Sun", dichiarazione d’amore per la sua Principessa, dove insinua maliziosetto: “Vieni, vieni, vieni nel mio Giardino, Amata/Forse posso tenere la tua mano fatta d’oro/Scivola nel mio Boschetto dorato, Amata...” prima di lasciarsi andare ad uno sfogo elettrico con distorsore e wha-wha. Pezzo semplice, come di consueto, ma capace di far cambiare umore; provare per credere.

Gioiello dell’album è una delle canzoni su cui aveva iniziato a lavorare anche Took, le cui parti furono poi cancellate quando subentrò Finn, "Wind Cheetah". Su un tappeto deliziosamente evocativo e ronzante di organo e chitarra distorta che avrebbe anche potuto essere un pezzo barrettiano della fase in cui nacque Late Night, la voce di Mark doppia insolitamente sul registro basso una melodia austera recitando alcuni dei versi più ispirati del disco: “Lei con l’aratro calpestato dalla luna/Mandrie di mucche pascolavano sulla sua bellezza profumata e pallida/Giovane un tempo, ancor oggi infusa di giovinezza/Musa del salice e dei campi arati...

Siamo ancora ovviamente nel campo delle fantasticherie hippy, per quanto riguarda i testi, ma Bolan ci sta lavorando. Per ora il clima resta lo stesso anche in altre belle ballate come "Great Horse", un possibile ibrido tra Barrett ed il George Harrison dei tardi Beatles, o "Dove", dichiarazione di mancanza, nostalgia e bisogno della persona amata immersa in un’atmosfera composta ma sospesa e quasi letargica, efficace nel descrivere le sensazioni evocate dalle parole.

Nel corso di tutto l’album, Bolan insinua il suono della chitarra elettrica, lo infila nelle classiche strutture dei suoi brani oppure evidenzia altre sfaccettature del suo stile più funzionali a questi inserimenti, globalmente distribuiti con senso della misura; in "Woodland Bop" lancia presagi del boogie che sarà e che è sempre stato in lui, nella title track si cimenta in un solo che preso in sé è fine a sé stesso, ma che acquisisce un senso se si pensa al progetto che si agita nella mente del folletto, che fa discretamente meglio (ovviamente non è Blackmore) chiudendo il cerchio in modo logico, e stavolta sì da vero Cavaliere Elettrico infuocato di Rock and Roll, con "Elemental Child", l’esempio più compiuto, insieme a "By the Light of a Magical Moon", del passaggio di consegne dall'immaginario di ispirazione Tolkieniana al sudore del Gruppo Rock, del Mollare le Menate e Mettersi a Ballare, che nel suo divenire si trasforma in quel boogie assatanato su cui a brevissimo Bolan fonderà un impero tanto scintillante quanto fragile, la cui gloria fugace avrebbe presentato un contrappasso ingiusto nei confronti del suo fautore.

Ma qui il bello e il susseguente brutto della Gloria non erano arrivati, è ancora il momento magico dove tutto è in potenza che viene fotografato in questo disco non perfetto ma che senz’altro è il più completo dei quattro, con pochissimi momenti superflui ed una concentrazione di pippe molto minore, soprattutto se ci si rapporta ai primi due album, qui pochissime e non particolarmente perniciose.

Per quanto io faccia parte della Brigata Partigiani Steve Took, questo è il disco migliore dei Tyrannosaurus Rex; più concreto, più brioso, più vario e divertente.

Finito alle 2:35 del 5 gennaio 2025

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