E’ difficile recensire un album come questo.

Il primo ad aver raggiunto in poche ore 500 milioni di potenziali utenti e ascoltatori e il primo quindi ad aver letteralmente scatenato così velocemente milioni di diverse opinioni e recensioni che, per quanto rintraccio su Internet, sono equamente divise tra definirlo un capolavoro o una schifezza marchettara.

Non c’è dubbio: anch’io mi sono diviso tra la costernazione generata dal primo ascolto e il fatto che gli U2 avessero deciso di pubblicare un disco così brutto e la successiva volontà di dargli qualche speranza con ascolti più attenti e ripetuti. D’altronde scrivere una recensione sull’onda dell’entusiasmo o del disgusto genera sempre molta istintività ma poca obiettività.

Partiamo dal singolo: “The miracle (of Joey Ramone)” fa il suo dovere con distorsioni, coretti e aperture melodiche tipiche degli U2, è ben prodotto e con una maniacale scelta dei suoni così cool e moderni e sono certo che si presterà ad aprire i futuri concerti dei 4 irlandesi con la sua forza d’impatto. “Every Breaking Wave” dimostra che pochi accordi ma buone idee costruiscono belle canzoni anche se ti sembrano ricordarne tante altre (“With or Without You” su tutte), e il fatto che appaia altrettanto bella anche nella versione acustica recentemente suonata in alcune trasmissioni televisive, non fa che confermarne il valore.

“California”: non l’ho apprezzata, alcune buone idee sprecate in una canzone che non si sviluppa mai e che anzi dimostra la fragilità della voce di Bono, stratificata e doppiata ma incapace di nascondere stonature e le intemperie del tempo. “Song for someone” e “Iris” rispolverano il lato intimo di Bono, ben accompagnato da The Edge in alcuni riff efficaci e da ballatona da stadio, ma non per questo riescono a nascondere una certa mancanza di ispirazione.

Meglio “Raised By Wolves” e “Cedarwood Road”, ben calibrate nelle dinamiche e soprattutto “vere” sia in termini di scrittura sia di esecuzione. “Volcano” per me è una schifezza, un rock pop trascurabile, impersonale e con suoni troppo alla moda che rimandano ad altre centinaia di canzoni trascurabili trasmesse ogni giorno alla radio. Meglio “This Is Where You Can Reach Me Now” e “The Troubles” (con ospite Lykke Li) buone canzoni che però mi danno più la sensazione di rappresentare un riempitivo all’album.

A riscattare però una certa tendenza del disco verso il trascurabile e il mediocre, affiora la gemma che non ti aspetti: “Sleep Like A Baby Tonight”. Con questa canzone torno ad ascoltare atmosfere primi anni 90, quando gli U2 sperimentavano nuove strade assumendosi il rischio di perdersi ma emergendo con quella pietra miliare che fu “Achtung Baby”. Il solo finale di The Edge vale il disco: sofferto, viscerale e a ricordare vagamente quello di “Love is Blindness” ma vero, passionale e a dimostrazione che i 4 dublinesi ogni tanto ci sono ancora con il cuore prima della testa, con gli strumenti prima dei soldi.

“Songs of Innocence” merita quindi di essere ascoltato ma sta a noi capire cosa aspettarci dagli U2. Se il desiderio è quello di ri-sentirli con le atmosfere delle loro produzioni anni 80-primi 90, si tratta di una mera utopia (oltretutto gli U2 stessi hanno già provato a replicarsi con gli album “minori” di questo millennio). Se ci interessa invece conoscerli attraverso nuove e diverse sfaccettature, “Songs of Innocence” è un album imperfetto e incompleto ma proprio per questo interessante.

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