The Joshua Tree. L’album di maggiore successo degli U2, con tre singoli leggendari (Where the Streets Have No Name, I Still Have’t Found… e With or Without You). Più che un disco un mito. E come tutti i miti, troppo celebrato.

Nessuno di noi vuole fare l’alternativo e negare l’influenza che questo disco ebbe nella storia della musica. Le tecniche qui usate sono state, in un paio di casi, pietre miliari. Tuttavia, quanto a canzoni, questo disco non raggiunge – globalmente –  la bellezza del precedente (The Unforgettable Fire).

È essenziale fare una premessa storica per comprendere meglio l’album. Gli U2, durante le registrazioni di The Unforgettable Fire avevano sperimentato molto, con l’aiuto di Brian Eno come produttore. Il risultato fu un album meraviglioso, ricchissimo di sfumature, che si apprezzano solo dopo tanti ascolti.

Ma il pubblico non aveva gradito molto. Molte canzoni di The Unforgettable Fire non avevano l’impatto live delle canzoni “rock-arena” di War o di Boy. Nonostante un tour di grande successo – culminato nella celebre esibizione al Live Aid nel Luglio 85 – Bono volle fare un album più immediato. A onor del vero, Edge e Mullen non erano d’accordo con e volevano continuare con le sperimentazioni del disco precedente, ma Bono, alla fine del 1985 si innamorò del blues e della tradizione folk americana. Parlò con Bob Dylan e questo incontro lo portò a desiderare di fare un album con influenze americane. “Avevamo sperimentato tanto, e avevamo generato un album impressionista, astratto, e piena di atmosfera. Per il disco successivo decidemmo di essere più essenziali e concisi”. Così Edge.

Anche se questo potrà fare infuriare qualcuno, The Joshua Tree è un album che tende al pop, di straordinaria fattura, ma comunque un album pop. Dunque un album più costruito sulle melodie e sugli arrangiamenti (assolutamente straordinari) che sulle idee musicali. Ovviamente, nel suo genere, rimane un capolavoro, con un rivoluzionario lavoro sul delay e sull’effettistica che ha fatto scuola.  
Il titolo originale doveva essere Desert Songs (canzoni del deserto) e per un ottimo motivo. L’album venne concepito nel 1985, all’apice dell’edonismo Tachteriano e Reaganiano, e così gli U2 vollero dire: mentre il mondo adora il consumismo, noi preferiamo la sobrietà e allora andiamo a cantare nel deserto. Il titolo venne modificato quando gli U2 andarono a fare le foto di copertina nel deserto del Sud-Ovest degli USA e lì, con loro grande sorpresa, scoprirono l’esistenza di una specie di cactus, una pianta grassa, chiamata dai Mormoni “Joshua Tree”, in onore del profeta Joshua, perché questo albero sembra un uomo con le mani aperte in segno di preghiera.
Allora Bono ebbe l’idea di chiamare il disco “albero di Joshua”.  L’idea fu ottima, perché, al di là della bellissima espressione, l’albero di Joshua, in quanto pianta grassa, ha bisogno di pochissima acqua per esistere, così come le canzoni di questo disco sono costruite pur su poche idee. E, in effetti, The Joshua Tree è uno dei massimi capolavori del minimalismo sonoro.

Passiamo alle canzoni. Si parte con Where the Streets Have No Name, probabilmente il più grande intro mai apparso su disco. L’organo angelico in dissolvenza sembra venire dall’altro mondo, fino a quando il celebrato arpeggio di 6 note (con gli straordinari  effetti di delay di Edge) ci riporta lentamente sulla terra prima della bellissima batteria di Mullen che, definitivamente,  ci prepara alla riflessione poeticamente e idealisticamente amara di Bono che canta il deserto, il luogo dove le strade non hanno nome, dove non esistono zone residenziali e periferie abbandonate, e dove le persone non possono essere giudicate dal quartiere in cui vivono: “Voglio abbattere i muri che mi tengono dentro. Stiamo ancora costruendo e  distruggendo l'amore”. Durante lo sviluppo della canzone, Edge ricama alla perfezione, ma sono Bono con la sua melodia e la batteria marziale di Mullen a dominare la scena, fino al crash a 4:52 quando parte l’arpeggio di Edge e rientra in scena l’organo che era scomparso dopo l’entrata in scena della voce di Bono. L’arpeggio scintillante unito all’organo celestiale va avanti  fino a 5: 22, quando qualcosa cambia e le note cominciano quasi una specie di ping-pong  di 10 secondi, prima della chiusura.
La storia del making di questa canzone meriterebbe una recensione a parte. Per chi fosse interessato, nel documentario “It Might Get Loud” (2009), Edge fa ascoltare il nastro con il demo iniziale, che sembra quasi l’intro di “In God’s Country”. Il chitarrista lo scrisse da solo, facendo un mix rozzo con una drum machine. Alla fine fu così eccitato che cominciò a dimenarsi come un fan, certo che quello fosse "the most amazing guitar part and song of my life". Si tratta in realtà di un demo senza pretese e senza personalità, nonostante l’ottima idea ritmica. Gli U2 lavorarono come pazzi per trasformarlo in una canzone. Brian Eno ha detto che metà delle registrazioni di The Joshua Tree furono dedicate al perfezionamento di “Where the Streets Have No Name”, che lentamente, da semplice folk elettrico,  si trasformò nell’arpeggio scintillante di 6 note (a mò di valzer) che ha dato alla canzone una dimensione quasi mitica.
Il lavoro di perfezionamento fu durissimo, e questo fa capire che non bastano le idee per fare un’opera d’arte. Vista la mancanza di progressi nella registrazione, Brian Eno pensò di prendere quello che i 4 avevano fatto e di cancellarlo, per costringerli a ripartire da zero, con la mente più libera. Nel documentario “The Making of The Joshua Tree” (1999) Eno disse che poi avrebbe detto agli altri che si era trattato di un incidente di studio. Mentre Brian Eno stava cancellando il nastro, l’ingegnere del suono Pat McCarthy entrò nella stanza, buttò per terra la tazza di tè che aveva in mano, afferrò letteralmente Eno impedendogli di compiere il delitto perfetto. Perché di delitto perfetto si sarebbe trattato.
Anche concludere  il brano fu faticosissimo. A un certo punto la band ci rinunciò. Poi qualcuno ebbe l’idea della conclusione quasi “sincopata” (da 5:21 alla fine), prese una lavagna e istruì gli altri su quello che si doveva fare.
La versione finale che appare nel disco, è il mix di diversi parti suonate dagli U2 in studio. Il risultato è la perfetta canzone rock-arena, la canzone live fatta a regola d’arte. Dopo quasi 30 anni, ad un concerto degli U2 questa canzone fa saltare, cantare e urlare tutti: giovani di oggi e giovani del 1987. Come disse Bono: “Possiamo anche fare il peggiore dei concerti, ma quando parte “Streets” qualcosa cambia e tutto si sistema. È Dio che entra nello stadio”.  5 minuti e 38 secondi che passano in un attimo e che ti fanno venire voglia di riascoltare il brano.

Si passa a I Still Haven’t Found…, il capolavoro melodico del disco. Difficile esagerare nell’esaltare la performance vocale di Bono – per Daniel Lanois, secondo produttore della band, “degna di Aretha Franklin”. Senza Bono, la canzone sarebbe comunque un bellissimo pezzo dall’apparenza minimale di pochi accordi, con tanti strati: la batteria, gli arpeggi simil-reggae, la chitarra acustica, e la chitarra “abstract”. Il brano è una confessione di Bono al Signore: del suo amore per lui (“Ho scalato le più alte montagne, ho corso, ho strisciato, ho scalato le mura di questa città, solo per essere con te”); delle sue debolezze (“Ho baciato labbra di miele, ho sentito la guarigione sulla punta delle dita di lei. Ho parlato con la lingua degli angeli Ho stretto la mano ad un diavolo”);  delle sue convinzioni (“Io ci credo nel Regno che verrà. Allora tutti i colori verranno versati in uno solo. Tu hai rotto i vincoli Sciogliesti le catene, portasti la croce ed il mio peccato. Lo sai che ci credo”);  e dei suoi dubbi  (“Ma ancora non ho trovato quello che sto cercando”).

E passiamo a With or Without You. La gente che disprezza le canzoni per principio, qualificandola superficialmente come canzonette, dovrebbe ascoltare brani del genere e ricredersi. La sua origine risale al 1985, durante il “The Unforgettable Fire Tour”. Gli accordi originali sono di Bono. Anche qui, gli U2 lavorarono moltissimo sulla canzone, che, secondo Adam Clayton, inizialmente era “troppo convenzionale”, una gradevole strimpellata acustica. Non si arrivò a nulla. Ad un certo punto, nel 1986, Lanois e Eno si rifiutarono di lavorare sul brano e il progetto fu abbandonato. Ma Bono continuò a crederci, insieme all’amico Gavin Friday e insieme perfezionarono il pezzo. Brain Eno ascoltò questa versione rimaneggiata e cambiò opinione sul brano aggiungendo l’intro di keybords di tre note che apre la canzone in modo inconfondibile. Le quattro note di basso di Clayton in evidenza sono perfette a rappresentare il carattere “down ” della canzone. Contemporaneamente parte un suono che sembra un organo e che invece è il suono di una “infinite guitar” che arrivò ad Edge durante le registrazioni del disco. La prima parte della canzone è solo il creativo lavoro di Edge con il suo nuovo strumento, mentre Bono canta la sua sofferta autoanalisi/confessione. Poi a 1:50 entra il famoso riff di poche note che ha reso famosa la canzone. A quel punto il pezzo comincia a crescere, con Bono che tira fuori tutta la sua voce, fino al celebre “Oh!”. Di nuovo un ritornello ripetuto seguito da Mullen, poi la pace, riempita da Bono con un bel falsetto.
A questo punto (4:05) inizia una vera e propria sinfonia di chitarre elettriche: la “infinite guitar” fa da tappeto sonoro, mentre una nuova chitarra entra in scena sulla cassa a destra, ripetendo poche note, fino a quando la prima chitarra (quella solista) si unisce alla seconda con il suo riff. Il finale in dissolvenza è da brividi; qui bisogna solo ascoltare, possibilmente ascoltando una cassa alla volta. Edge ha sempre detto: “Potevo fare un super assolo alla fine, un vero climax. Ma non lo feci e sono soddisfatto. La grandezza dell’assolo finale di “With or Without” è nel suo essere trattenuto”.  With or Without You passerà alla storia come una sinfonia elettrica, un capolavoro musicale in “forma-canzone”.

C’è una cosa che voglio aggiungere, e che non tutti conoscono, compresi molti fan degli U2. Se prendete il film musicale Rattle & Hum, e ascoltate la versione di With or Without You, vi accorgete che c’è un’aggiunta a 4:15, con la chitarra che invece di chiudere risale e si abbandona ad un climax (quello che Edge volle evitare nella versione su disco) con Bono che aggiunge una strofa: “We shine… ”. Un vero peccato che gli U2 non abbiano mai inciso questa versione in studio. Se questa versione era già presente nella versione in studio, allora si deve dire che qui gli U2 peccarono di troppa concisione.
Il brano successivo è “Bullet the Blue Sky”, la canzone rock del disco, quella che ricorda di più gli U2 dei primi anni. Bono ricorda: “Ero furioso con gli attacchi compiuti dall’America nel Nicaragua nel 1986. Dissi ad Edge di mettere la mia rabbia nell’amplificatore della sua chitarra, e lui fece il resto”. E in effetti questo brano è uno dei massimi trionfi del grande chitarrista. L’inizio è da antologia con la chitarra super distorta che sembra ricordare prima gli aerei (0:20 sec), poi lo sganciamento dei missili (le pallottole nel cielo blu indicate nel titolo), poi la deflagrazione dei missili a terra (0:30 sec). Poi la chitarra sparisce e la canzone, nelle strofe, vive del lavoro di Mullen e della voce di Bono. Poi Edge si scatena e riesce, nel suo assolo, a rappresentare le ambulanze che devono prendere i feriti (1:40). Una canzone di rabbia contro il lato oscuro dell’America.

Dopo la furia di “Bullet the Blue Sky”, si ritrova la pace musicale con la piano-ballad “Running to Stand Still”. In realtà, “Running to Stand Still” è più di una piano-ballad. Gli U2, in omaggio alla musica americana che questo album vuole in qualche modo celebrare, misero all’inizio del pezzo delle note di blues acustico con una “slide-acustic-guitar”. Poi la canzone procede su due semplici accordi al piano, con il produttore Daniel Lanois che aggiunge delicati tocchi di chitarra elettrica, fino al finale con l’armonica a bocca di Bono che lascia profonda emozione nell’ascoltatore, nonostante il finale pessimistico. Il testo parla della droga, ed è uno dei picchi di Bono come autore, grazie alle immagini plastiche che riesce a creare, specialmente le sette torri, una serie di sette palazzi di Dublino che, negli anni 80, i tossicodipendenti usavano per andare a bucarsi. Il titolo descrive alla perfezione l’atto del drogarsi del tossicodipendente che corre (running) per procurarsi la droga e placarsi (to stand still). Non un capolavoro musicale, ma di certo un capolavoro emozionale.

Il resto del disco prosegue con gli arpeggi scintillanti e i cori angelici di Red Hill Mining Town (delicata dedica di Bono ai minatori inglesi che vennero mandati in cassa integrazione dal governo Thatcher nel 1985); con gli accordi altrettanto scintillanti, pieni di gioia di Trip through Your Wires (dedicata alla donna che con il suo amore, eterno o passeggero, riesce a ridare vita all’uomo che non riesce più a essere felice); con il simil-rock-and-roll di In God’s Country (dove Bono racconta, con ottimi versi, la doppia faccia dell’America fatta di sogni ma anche di sogni infranti); con la ben ritmata One Three Hill (dedicata a Greg Carroll, amico di Bono, morto nell’estate del 1986 in un incidente, e a cui The Joshua Tree è dedicato); e con la lugubre Exit (una jam-session nata quasi per caso con un Bono che racconta la storia di un serial-killer e caratterizzata da una splendida progressione della  musica, in perfetta simbiosi con i versi).

C’è spazio per un ulteriore gioiello, da molti sconosciuto e cioè il gran finale di “Mothers of Disappeared”, che inizia con il dolce rumore della pioggia che cade su un tetto, prima dell’entrata in scena del sintetizzatore di Brian Eno e delle semplici ma puntualissime note di chitarra acustica di Edge. La canzone è dedicata alle donne di Plaza de Mayo, le madri degli argentini che si opposero alla dittatura dei generali e che, prima vennero arrestati, e poi “scomparvero” misteriosamente. Ancora oggi le loro madri si riuniscono in Plaza de Mayo, chiedendo di poter dare ai loro figli una degna sepoltura, in quella che rimane una delle pagine più vergognose della storia moderna. Bono usa versi semplici ma di grande effetto: “Mezzanotte, i nostri figli e figlie furono abbattuti e presi a noi. Sentiamo il battito del loro cuore. Vediamo le loro lacrime nella pioggia che cade”. Le bellissime note di basso di Clayton chiudono in modo grave, visto il tema trattato, il grande album.

50 minuti di emozione, coerenza sonora, insieme ad alcune innovazioni tecniche che hanno davvero segnato la musica.

La storia sociale di The Joshua Tree la conoscete tutti. Ad oggi 28 milioni di copie vendute e il Grammy come album dell’anno nel 1988. Da gruppo emergente, gli U2  divennero il gruppo più famoso del pianeta. Un successo strepitoso. Troppo strepitoso. Un mito che divenne così pesante che arrivò quasi a schiacciare i 4, che cominciarono a domandarsi: “Saremo capaci di fare qualcosa allo stesso livello?”. Fu durissima superare questo tarlo mentale, che li portò ad un passo dallo scioglimento. La loro reazione al mito dell’impegnatissimo (ma fondamentalmente ottimista) The Joshua Tree sarà l’ironico (e profondamente disperato) Achtung Baby. Ma questa è un’altra storia.

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