Io: “Ti ricordi gli UFO?”

Qualcuno: “Certo, ma io non ci credo!”

I: “Non dire stronzate, parlo della rock band inglese!”

Q: ”Ah si! Quelli che avevano Michael Schenker come chitarrista!”

I: “Altra stronzata, o meglio, è vero ma non sono solo quelli gli ufo!”

Proprio così, perché c’è stato sia un periodo pre-Schenker che uno post. Oggi voglio parlare del periodo antecedente all’arrivo del fenomeno della 6 corde, e per l’esattezza di “Ufo 2: Flying”. Esce nel 1971, e si presenta con una copertina raffigurante un uomo-alieno inseguito da due dischi volanti, coerente con tutte le singolari copertine della band. Il disco presenta venature che spaziano dal prog all’ hard rock, a tratti è anche psichedelico e immagino che molti penseranno: “ecco il solito disco psichedelico di quegli anni, se devo ascoltare qualcosa di psichedelico, metto su un cd dei Pink Floyd”, ma non è esattamente così.

Il sound di questo disco è molto particolare, viene chiamato space-rock ed io la prima volta pensai: “che caz’è sto space-rock?”, perché devo essere sincero, fino alla scoperta degli Ufo non sapevo nemmeno esistesse un genere chiamato così. Per capire esattamente a cosa vado incontro devo aspettare che si arrivi alla traccia numero due “Star Storm”, un pezzo di quasi 19 minuti che ha il pregio di cambiare molto col passare dei minuti riuscendo così a non essere noioso, anzi si arriva ad un certo punto (circa metà della canzone) in cui si cade in una sorta di trance, grazie a questi suoni che definirei proprio “space”, o meglio ancora “ufeschi”.

L’altro pezzo forte del disco è la title-track, quinta ed ultima traccia, anch’essa di una durata non proprio radiofonica visto che parliamo di quasi mezz’ora. “Flying” nonostante tutto non è una canzone come la precedente da laccio emostatico e cucchiaino scaldato (per tornare al discorso “trance”), ma è leggermente più incalzante come ritmo grazie ai molti dialoghi che avvengono tra Phil Mogg alla voce e Mick Bolton alla chitarra solista. Phil è più in forma che mai, voce fantastica e suadente, mentre Mick alla chitarra è fenomenale, non proprio un re della tecnica ma che riesce comunque a strabiliare con la sua fantasia nell’accompagnare per oltre 26 minuti l’intero pezzo tra riff, arpeggi e assoli. Per rendere meglio l’idea dirò che è un pezzo molto “sabbattiano”.

Le altre tre tracce mancanti sono: "Silver Bird", "Prince Kajuku" e "The Coming of Prince Kajuku", di durata ovviamente inferiore rispetto alle altre due e anche di ritmi diversi, molto più coerenti con l’hard-rock dell’epoca. Da come si potrà evincere non è un disco che si può mettere in macchina per andare a fare la spesa a dieci chilometri di distanza, ma anzi, è certamente piuttosto impegnativo data la durata e la compattezza delle due tracce principali ma non credo che finito l’ascolto vi pentirete di aver usato così 60 minuti della vostra vita.

Provare per credere…

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