Il rock è morto. Non lo è? Allora è moribondo, in lunghissima agonia. Le sue migliori (o fortunate) pagine sono diventate musica classica (“Classic Rock”… c’è pure la rivista), girano e rigirano per i palchi con le Tribute Band o qualche Dinosauro ancor vivente. In un prossimo futuro verranno trattate alla stessa stregua delle Sinfonie e delle Opere del settecento e ottocento… Capiterà in un qualsiasi teatro che una sera diano “La Gazza Ladra” e la sera dopo “Dark Side of the Moon” e la gente non distinguerà più di tanto la differenza, proprio come la maggior parte di noi in fondo non distingue Bach da Debussy, e fra di loro ci stanno due secoli di distanza.

Il rock è uscito da tempo, dopo tanti anni, dalla pole position dell’interesse giovanile e il funerale non gliel’hanno fatto il pop, il cantautorato, la Disco, la New Wave, la Techno, la Macarena, l’Elettronica… No, è stato ammazzato dal Trap, Rap, Hip Hop, quella roba lì, una faccenda anti musicale fatta di groove artificiale (sempre quello) e parole, parole a cazzo al microfono, in un vuoto pneumatico di artisticità che personalmente mi sgomenta, mi irrita, mi mortifica.

Mi accorgo che è morto il rock quando riesco ad intercettare, sempre più raramente, gustosi, anzi eccellenti dischi rock contemporanei, come questo qui (2020), opere di un genere che quarant’anni fa vendeva anche troppo, adesso troppo poco. Un’epoca nella quale le uscite discografiche rock ti investivano da tutte le parti: le radio, gli amici, i negozi di dischi, le riviste specializzate, i concerti… E dunque occorreva discriminare, non si riusciva a star dietro a tutti, l’offerta era massiccia, dovevi scartare grasso e abbandonare continuamente qualche nome minore dopo un paio di album per correre dietro a qualcosa di più nuovo, diverso, accattivante, interessante.

Adesso occorre il proverbiale lanternino per gustarsi uscite contemporanee di sano e solido hard rock melodico, enfatico ma misurato, ben arrangiato, suonato e cantato da gente in gamba. Bravi e ispirati gli americani Unruly Child lo sono di sicuro, a cominciare dalla frontman, la transessuale Margie Free nata Mark, dotata di rigogliosa e consistente voce tenorile, una versione migliorata di Joseph Williams dei Toto. Per non parlare del chitarrista Bruce Gowdy che ha fatto parte di mille gruppi suonando sempre alla grande, senza strafare e badando a comporre al meglio, ad avere i suoni giusti (qui sono favolosi), a non fare da giovane il poser hair metal come tanti suoi colleghi del tempo. Che dire poi di batterista e tastierista, due musicisti dal curriculum infinito (Yes, Doobie Brothers, Moody Blues, World Trade, Asia, Hurricane, Air Supply, Glenn Hughes…), due signori musicisti.

Chi gradisce pertanto l’hard rock raffinato e ben prodotto, provi a fare un tour di questo disco, soffermandosi sull’impetuosa “Say What You Want”, gustando i celestiali cori di “Glass House”, annotando i gran suoni di chitarra di “Everyone Loves You When You’re Dead”, il bel riff protratto di “Talked You Out of Loving Me”, i dardeggianti ritornelli in stile Toto di “Underwater” e di “Catch Up to Yesterday”, lo squisito intro di chitarra classica di “Freedom Is a Fight”. Le ultime due canzoni dell’album sono riciclate dal loro primo disco (1991) e riarrangiate togliendo loro quella patinali troppo di enfasi: meglio così.

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