La sacra trimurti del rock duro Zeppelin/Purple/Sabbath che, nei primi anni ’70, dominava le fantasie musicali di una bella fascia di giovani e giovanissimi boomers, non appariva a quei tempi così ristretta ed esclusiva come la storia l’ha poi scolpita. Circolavano infatti importanti outsider che, per molti, meritavano di costituire il quarto tassello del mosaico e fra questi il nome più facilmente sulla bocca degli appassionati era quello degli Uriah Heep.

Il contributo tematico alla causa dell’hard rock da parte di questo quintetto londinese può essere individuato sia nella peculiare, rigogliosa resa dei cori sia nella superba efficacia nell’uso dell’organo Hammond, grazie ad un timbro rigoglioso ed esecuzioni semplici, essenziali e proprio per questo memorabili, solenni, di carattere. Lo stile del cantante poi, col suo piglio non di rado operatico e pomposo, ha aperto la strada a tanti frontman non tanto presi dal fraseggio blues quanto piuttosto da altre contaminazioni, uno su tutti Freddie Mercury.

Uriah Heep fecero ben presto degli sbagli, il più grave di tutti quello di far uscire troppi dischi, uno appiccicato all’altro e conseguentemente non molto interessanti, pieni di riempitivi. I primi quattro, cinque album sono vivaddio nella storia del rock, gli altri venti (!) no, anche se un paio di essi meritano proprio di stare nella loro top five, a mio sentire. Tipo quel “Sea of Light” del ’95, veramente farcito di grandi pezzi.

Le successive generazioni di ammiratori del rock duro non sono state generose con gli Heep, non riuscendo/volendo tirar fuori i buoni semi dalla molta crusca dispersa negli anni dal gruppo, già a partire dal ’75. Da una vita il quintetto si ritrova perciò nell’angusto formato di band di culto, dagli orizzonti limitati, ma comunque sufficienti ad andare avanti. Anche grazie a quel portento di personaggio che annoverano tra le proprie file ovvero il chitarrista Mick Box, uomo di rara ed encomiabile positività, cocciutaggine, umiltà e coraggio, qualità che gli hanno permesso di far restare a galla il gruppo fra le mille vicissitudini artistiche, manageriali e relazionali: massimo rispetto e ammirazione per Box, musicista “normale” ma uomo con le palle, allegro e costruttivo.

Quest’opera interminabile, spalmata in due dischetti nella sua edizione espansa del 2002, a valle di quella originaria in unico supporto che invece era uscita nel 1993, raccoglie una serie di demo, registrazioni alternative, inediti risalenti ai primissimi tempi della formazione. Più precisamente l’epoca dei primi tre album vale a dire “Very ‘Eavy Very ‘Umble”, “Salysbury” e “Look at Yourself”. Vi è inoltre qualcosa dei tempi in cui si chiamavano ancora Spice e qui si risale addirittura al 1968. I tre album sopraddetti, i cui ritagli e frattaglie fanno qui la parte del leone, risalgono rispettivamente i primi due al 1970 e il terzo al 1971.

Quest’album quindi si rivolge ai fans della band, a quelli a cui ancora essa piaciucchia e sono curiosi, a quelli che amano semplicemente buttare un ascolto ai “lavori in corso” di brani abbastanza ben noti.

Lansdowne è il nome dello studio discografico, esteso su tre piani di un palazzo storico nel centro di Londra, nella strada omonima vicino ad Holland Park, dove il gruppo ha registrato i suoi primi dischi. Ha resistito fino al 2006, poi è diventato un appartamento di lusso. Gli Uriah Heep resistono invece ancor oggi, immarcescibili. Box (78 anni) ha annunciato l’anno scorso una loro tournée di addio, ma ha anche aggiunto che essa durerà qualche anno…

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