La critica sa essere, a volte, profondamente ingenerosa se non decisamente crudele proprio con gli artisti più prodighi di doni, quegli stessi che vedono nell'avventura musicale un darsi a 360 gradi agli orecchi del mondo. Capita, così, che ci si scordi come dietro il "music man" si nasconda pur sempre un essere umano con tutto il suo bagaglio di personale vulnerabilità; e, fatto ancora più assurdo e deprecabile, si dimentica quanto proprio questo doloroso portato sia spesso linfa vitale di opere troppo presto relegate nel dimenticatoio.
Sembra appunto quanto capita a Van Morrison agli albori del 1974, all'apice di quello che era stato il suo quinquennio dorato (dai fasti di "Astral Weeks" in poi). Non pare neanche lui, Van The Man, l'uomo fotografato sulla copertina di "Veedon Fleece": lo sguardo malinconico, assorto "into the mystic", è sempre il suo, ma lo scenario vagamente "Pet Sounds" parla chiaro di un desiderio di casa e raccoglimento. La storia con Janet, non molto tempo prima celebrata nel canto gioioso e fiero di "You're My Woman" (dal notevole "Tupelo Honey", 1971), è ora tristemente archiviata. Si schiude un abisso che condurrà Van a una profonda rimeditazione (non solo artistica), interrotta in parte dalla superba, inaspettata seconda giovinezza di "Into The Music" (1979) e ripresa con toni e modi diversi nella fase 'Irish' degli anni '80. Bistrattato, se non in qualche luogo stroncato, dalla critica alla sua uscita, "Veedon Fleece" paga il pegno dell'impegnativo marchio che porta con sé: quello di disco-spartiacque tra due diverse vite artistiche dell'uomo Van Morrison.
Difficile, lento e introverso, a tratti scorbutico (la nevrotica chitarra di "Bulbs", unica concessione a una vena pop assente dai tempi di "Jackie Wilson Said"), è un'opera che a torto ha subìto un'accoglienza fredda e liquidatoria. Eppure, per chi vi si accosti senza diffidenza, può davvero diventare qualcosa come un amico sincero; uno di quei compagni che non ti abbandonano nel cuore di una stanca serata autunnale. Posto che siamo distanti anni luce - non per qualità ma per impostazione tematica - dal delirante afflato poetico di una "Madame George" così come dalle robuste scosse adrenaliniche di gemme come "Glad Tidings", "Domino", "Wild Night" - si può ben affermare che lo struggente pianto di "Fairplay" è un'apertura indimenticabile. E indimenticabili sono i gorgheggi "louisarmstrongiani" a chiusura della cupa elegia di "Cul De Sac", la sofferta richiesta di presenza di "Come Here My Love", la melodia conciliante e protettiva di "Comfort You".
Sfido chiunque, poi, a rintracciare nella sterminata discografia del nostro qualcosa che si avvicini alle modulazioni vocali soul di "Who Was That Masked Man" o all'anarchico urlo di nostalgia di quel tuffo al cuore che è "Linden Arden Stole The Highlights". Certo qualcuno si ritroverà a contare i minuti di "You Don't Pull No Punches", a rimpiangere la vitale carica 'ballerina' di "Caravan" o il piano affabulante di "Saint Dominic's Preview", ma il terreno su cui ci si muove è diverso e comunque poco importa: l'amico che ci parla è lo stesso che ci ha accompagnato e continua ad accompagnarci nei meandri di un'esperienza artistico-esistenziale irripetibile, e merita incondizionato ascolto.
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