L’imprevedibile successo commerciale della colonna sonora del film “Woodstock”, pubblicata dall’Atlantic su voluminoso e costoso album triplo, convinsero i manager dell’etichetta concorrente Columbia a seguirne l’esempio e a far uscire a loro volta, nel 1971, un ellepì triplo (poi digitalizzato in ciddì doppio) assemblante le esibizioni di vari artisti tratte da festival all’aperto.

Solo che in questo caso i festival sono due, rispettivamente la seconda edizione dell’Atlanta Pop  Festival (Georgia, USA, dal 3 al 6 luglio 1970) e la terza edizione del Festival nell’Isola di Wight (Inghilterra, dal 26 al 31 agosto 1970). Due kermesse distanti un oceano ma accomunate dalle stesse caratteristiche, tipiche di quella stagione musicale: mezzo milione o più di partecipanti a titolo gratuito escluso i bravi ragazzi che avevano comprato il biglietto in prevendita, pessima organizzazione, grandioso spirito di adattamento della bella gioventù presente alle difficoltà igieniche, sanitarie e nutrizionali, droghe e nudismo a sazietà, residenti e polizia (la poca che c’era) comprensivi e collaborativi, pacifismo sfrenato a tenere nobilmente a bada ogni e qualsiasi “diversità” e contrasto ideologico, morale, religioso, razziale, caratteriale. Roba d’altri tempi, decisamente.

Le vendite di quest’album triplo furono deludenti, mancando per certo il potente traino di una pellicola di successo, ma anche e soprattutto un’oculata scelta di brani e interpreti e relativo, adeguato trattamento tecnico delle registrazioni, affastellate senza la cura maniacale e preziosa che il grande fonico Kramer aveva riservato ai nastri di Woodstock. La versione in cd, pubblicata da un’etichetta minore, è non per niente di assai difficile reperibilità.

Le performance estratte dai due festival si presentano in successione: prima quello americano (il primo dei tre ellepì, ovvero le prime sette tracce del primo ciddì) e poi quello europeo (il secondo e terzo ellepì, ovvero tutto il resto del primo ciddì più tutto il secondo). Dei quattordici gruppi o solisti immortalati in azione dodici sono americani e due britannici, cinque suonano ad Atlanta e nove a Wight.

Il genere musicale più rappresentato è il rock blues, da non molto uscito del tutto dall’underground della scena londinese, grazie soprattutto a Cream, Stones ed Hendrix e ben avviato a dominare per un certo tempo nei paesi anglosassoni (anche l’Italia vi si adeguerà… un paio d’anni più tardi e con la concorrenza del progressive). Gli interpreti qui presenti, ciascuno secondo proprio stile, sono gli Allman Brothers, i Mountain, Johnny Winter, i Cactus, i Ten Years After e Jimi Hendrix. La variazione principale al blues primario è costituita dal country folk con i Poco, David Bromberg, Leonard Cohen e Kris Kristofferson; una puntata sul progressive pop è invece resa dai Procol Harum, una forte dose di soul-funk è poi assicurata da Sly & Family Stone e dai Chamber Brothers, mentre il gran finale è fusion jazz, con in azione il suo inventore Miles Davis.

A spregio di ogni elementare senso commerciale e pratico, alcune delle performances scelte sono veri e propri tour de force, robe da quasi una ventina di minuti, dilatate a dismisura da improvvisazioni e indulgenze varie dei solisti coinvolti. Una forma di intrattenimento che, certamente efficace stando in platea immersi nel feeling della serata, si perde un po’ su disco, quando varietà, consistenza, concisione e compattezza favoriscono la concentrazione all’ascolto. Così abbiamo i Mountain che partono per la tangente per non tornare più in “Stormy Monday”, un blues lentissimo che invece di finire si carica di ritmo e di furiosi botta e risposta fra basso e chitarra.

Alla stessa maniera i Ten Years After operano su “I’Can’t Cryin’ Sometimes”: il povero Alvin Lee (deceduto poco tempo fa) la prende alla larga, con un intro country, un proseguo scat (voce e chitarra all’unisono, mica facile) e finalmente il riff di apertura del pezzo. Anche qui seguono dieci minuti buoni di improvvisazione, schitarrate d’alta scuola con le quali Lee mostra più che mai pregi (è un solista pulito, preciso, veloce e grintoso) e difetti (i suoi licks, le sue frasi melodiche sono decisamente ricorrenti, la sua “svisata” è più o meno sempre la stessa). Mi ripeto: dal vivo tutto fa spettacolo, su disco affiora un po’ di noia.

Anche Miles Davis non scherza: diciassette minuti quasi di un unico tema rock jazz sviscerato fino all’inverosimile, prima di estinguersi. Qui poi vengono avanti anche mie personali idiosincrasie… estremizzabili da una nota uscita di Stewart Copeland il batterista dei Police, più o meno: “Il jazz è un genere buono per gente che non ha nulla da dire con la musica!”.

Le esibizioni di Hendrix, degli Allman Brothers e di Cohen possono essere meglio apprezzate nei rispettivi dischi usciti a lorotempo e contenenti le intere scalette di quegli stessi concerti. In quest’album agli Allman sono riservati un paio di episodi, ad Hendrix tre e a Leonard Cohen (per fortuna…  stona dall’inizio alla fine) solo uno. E’ opinione comune che la performance di Hendrix a Wight sia stata assai opaca… è in effetti così, il maestro si “intacca” ogni tanto durante le fasi soliste perdendo il filo del discorso, ma Jimi è e rimane unico, anche una sua prestazione sottotono riesce a trasmettere l’approccio memorabile e sensuale che lui teneva con la musica, il suo suono fluido e inconfondibile, il suo divertimento, il suo cuore. Specie qui che siamo a meno di tre settimane dalla sua crudele e stupida morte.

Nel settore folk svettano come sempre i Poco, grazie primariamente alla maestria di Rusty Young sui vari strumenti a corda, da lui virtuosamente maneggiati. Risibile invece la prestazione del futuro attore (e scarso pure in quell’arte!) Kris Kristofferson, che le cronache del festival narrano cacciato letteralmente dal palco dagli ululati del pubblico. Bravo invece David Bromberg, mentre suonano scolastici i Procol Harum… probabilmente la scelta di “A Salty Dog” per questo disco non è la più adatta: troppo importante (e sublime)  il ruolo dell’orchestra in quest’assoluta gemma del pop, con l’organo che non riesce ad esserne un valido surrogato.

Johnny Winter e Sly & The Family Stone fanno quello che sanno fare, nei rispettivi (e diversi) ruoli, senza infamia e senza lode. Particolarmente pallosi al contrario i fratellini dei Chambers Brothers, un gruppo di cui in Italia è veramente arrivata una eco men che minima, anche ai bei tempi loro: del loro gospel pretenzioso, mal cantato e ripetitivo non si vede l’ora che finisca.

L’unica cosa veramente imperdibile dell’opera è costituita dal paio di pezzi offerti dai Cactus, dieci minuti scarsi di fuoco ardente in favore del miglior blues rock che si possa concepire dal vivo: energia atomica, strumentisti poderosi, un’ugola di carta vetrata a latrare ossessivamente o ad attaccarsi all’armonica come fosse il boccaglio dell’ossigeno. Jim McCarty poi è una chitarra solista clamorosa, una specie di Jimmy Page ma più matto e lesto. I primi cinque minuti sono dedicati a un blues lento (“No Need To Worry”) in cui tutto quello che fa McCarty dovrebbe essere insegnato nei conservatori, poi senza soluzione di continuità Carmine Appice innesta un tempo a 200 battute per minuto, gli va dietro il compare di ritmica Tim Bogert e subito dopo il mitico suonatore di Gibson di cui sopra: è partita “Parchman Farm”… quasi subito arriva uno stop clamoroso e il raglio altissimo di Rusty Day torna a fendere l’aria e far male alla gola, pensando a quel che lui sta facendo alla propria. L’assolo di chitarra, totalmente improvvisato ed istintivo, è una bomba e così tutti i fills che lo precedono e lo seguono. Casino totale ma l’istinto è talmente buono da esercitare anche il controllo… l’essenza del rock viene colta in pieno in questi dieci minuti dei Cactus, un gruppo che non sapeva comporre e non ha saputo vendersi ma che, in un misconosciuto triplo dal vivo di quarantadue anni fa, mostra di che pasta bisogna essere fatti per mandare la gente in brodo di giuggiole con il rock.

Per chiudere, ecco i nobili assenti: per la cronaca in questi due festival si esibirono anche Jethro Tull, Joni Mitchell, Emerson Lake & Palmer, Grand Funk Railroad, Free, Chicago, Supertramp, Doors... Alcuni non vollero essere registrati (Morrison, ad esempio), per altri scattarono sicuramente incompatibilità commerciali fra di etichette discografiche… certe esibizioni sono comunque venute fuori in dischi a proprio nome (Gli ELP come noto, ma anche i Grand Funk  con il loro tonitruante “Live Album”). Insomma quest’assemblaggio dal vivo poteva essere fatto molto meglio, con gruppi migliori, estratti migliori delle loro esibizioni, una registrazione e una produzione più accurate. Esso resta comunque una valida ed “atmosferica” immersione nel gusto, nelle filosofie, nelle gioie, nelle pazzie e negli eccessi di quell’imperdibile epoca, musicale ed umana.

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