Vediog Svaor è un trio composto da Alex Lifeson dei Rush, Syd Barret e Wrest di Leviathan: i tre si incontrano ogni martedì pomeriggio per jammare insieme nella mente perversa di Van Vadermark, geniale personalità dietro appunto al progetto francese Vediog Svaor, divenuto negli anni una one-man band.

I tre musicisti citati all'inizio sono le tre maschere che interagiscono durante questa controversa e affascinante recita che è 'In The Distance' (2001), a volte rubandosi la scena, altre intrecciando dialoghi visionari e singolari. Questo folle quanto sconosciuto progetto solista mischia infatti elementi tanto eterogenei da risultare al primo ascolto un pugno in faccia, per poi affascinare sempre di più ascolto dopo ascolto, nota dopo nota.

Per rendere più chiaro il riferimento iniziale sarà forse utile al lettore che io parli in modo più approfondito della musica, e delle soluzioni che di volta in volta Van pesca dalla sotira e dalla sua immaginazione; la proposta del gruppo è un concentrato omogeneo ed equilibrato di Black Metal, Prog Metal ed elementi Psichedelici, senza che nessuna di queste tre componenti risulti schiacciata o pura decorazione; c'è una gran varietà nel disco che permette ad ogni anima della musica di inserirsi e trovare un proprio spazio: così capita di imbattersi in un brano di poco più di un minuto di sfuriate black intervallate da stacchi e cambi di tempo jazzati, per poi trovarsi al centro di un pezzo molto più lungo contraddistinto da melodici arpeggi che poi confluiscono in viscerali partiture metal.

Uno degli aspetti appunto che ho preferito di questo album è la "forza" che caratterizza ogni nota: qui ci troviamo in ambiti opposti al Depressive, qui tutto ha un'anima rabbiosa e sanguigna. Il disco, soprattutto nelle parti più ispirate al Metal estremo, ha un'attitudine profondamente "sludje", nel senso più pregnante del termine; i riff, le urla, gli inserti psichedelici hanno l'aria di pennellate di colore puro sulla tela: pare di trovarsi al cospetto di uno dei reduci dei quadri di Kirchner, o davanti ad un volto sfigurato di Szymkowicz. La materia anche qui cade pezzi giù dalla tela.

Questo aspetto potrebbe sembrare un paradosso dato che ho citato in apertura un personaggio cardine del Depressive, e quindi in apparente contrasto con le atmosfere del disco. Bisogna però ricordare come Van nelle interviste si sia sempre dichiarato un estimatore della corrente californiana del depressive (Xasthur, Leviathan, Draugar), profondamente diversa da quella europea, deprimente e doomeggiante; gli americani hanno invece un approccio viscerale e "vitale" alla materia, sudando passione e sentimento da ogni pro: basta leggere i testi di Xasthur per rendersi conto come il suicidio sia più una metafora che un gesto auspicabile per Malefic, seriamente impegnato nel descrivere l'ira e la vendetta che trasudano dal suo isolamento. Questo stesso approccio delirante ed estremista è percepibile tra le note di In The Distance, metafora di un disagio prima mentale e poi esplicato a livello fisico.

A quest'anima metallica ne corrisponde una altrettanto estrosa, ma decisamente rivolta indietro nel tempo; l'elemento Progressive è presente in due differenti modalità: da una parte il riferimento principale è quello a quanto fatto negli anni '70 dai Rush, con ovvio riferimento a 2112: numerosi i cambi di tempo che contraddistinsero un brano ad esempio come "The Temples Of Syrinx", e altri particolari, dalle distorsioni agli stacchi elettrici ricordano da vicino i canadesi.

L'altro filone che viene ripreso è la musica a cavallo tra '60 e '70, quando ancora il passaggio da pop/rock a progressive non si era compiuto per la maggioranza delle band: troviamo quindi disparati spunti ingenui ed efficaci, oltre che dal versante umoristico/sperimentale anche da quello compositivo; sono molti i momenti di calma nel disco che richiamano a quanto fecero i Pink Floyd nel periodo barrettiano (o lo stesso da solista) o anche solamente al pop psichedelico dei Beatles (ad esempio in "Strawberry Fields Forever").

Il disco quindi viene a comporsi di queste tre anime, ed è quasi possibile definirlo come "Pychedelic Progressive Black", ma bisogna ascoltare questo capolavoro per rendersi conto pienamente delle potenzialità del disco: sentire un intro settantina esplodere in un riff distorto accompagnato da un cantato molto grind; o anche un riff black stopparsi dopo pochi secondi per dar vita ad un gioco di stop and go davvero suggestivo; o anche il passaggio dal cantato in screma a quello pulito, malinconico e retrò.

Se a questo sommate una produzione perfetta ed una tecnica superiore non credo avrete motivo di diffidare: almeno ascoltatelo.

Carico i commenti...  con calma