- In Sardegna, la tanca è un terreno piano o collinare, non coltivato, eventualmente a uso pascolo. A vederle, si direbbero terreni di poco valore. Per una contesa di tanca, un uomo prende un pallettone in faccia e, con lui, chi prova a conservare il suo cognome nelle generazioni. Bastano pochi metri quadri di appropriazione avvertita come indebita, una cazzata qualsiasi che leda un onore. Chi mi ha detto, una volta, che le questioni di principio non esistono, era di fuori.
Tanca, in sardo - con derivazione spagnola - è anche una forma verbale: imperativo "chiudi", indicativo presente "chiude".
Se vai per lumache o bacche di mirto, stai attento a non scavalcare un muretto a secco o un fil di ferro, perché potresti offendere il cane e il pastore. Non importa se il muretto è basso: chiude, e a quel punto sei avvisato.

Quando i Verdena attaccano Tanca, c'è un esplosione di fuzz. Ma è Isacco Nucleare? C'è l'incedere di una cupa imminenza scandito dal basso, marziale e gonfio. Notazioni naturalistiche con sangue e morte, cantate da quella solita voce arcigna.
Quando nel ritornello Luca sfianca i piatti e Alberto esplode in rive lontane, si sentono chiari otto scoppi.
Poi arriva un'apertura, l'andamento strascicato e malevolo, quasi doom, si scioglie in un trionfo di chitarre in crescendo con Alberto che, infine, gioca con i suoni, i pedali e le armonizzazioni. Pecorelle e campanacci.

- Non è vero che in Sardegna c'è la cultura del mangiare molta carne. Quella storia del porceddu, o com'è che lo chiamano gli imbecilli, che gira per ore impalato e sventrato sulle braci di tutti i veri-sardi-ajò, è una forzatura: l'abuso è un fatto di storia recente, provocato da influssi esteri. Se un sardo ti dice che devi assolutamente mangiare un cucciolo di maiale, sgozzato e cotto secondo le regole tradizionali, è un sardo coglione. È un piccolo porco cotto aromatizzato che fa cagare/è buonissimo come in ogni altro posto al mondo.
Noi, antropologicamente, non siamo mica portati. In zone che sopravvivono d'allevamento, gli animali non si uccidono così, alla leggera. Il consumo abituale di carne era prerogativa dei pochi benestanti. Per gli altri c'erano le occasioni, le domeniche, le feste con i loro rituali.

Carne racconta una festa. Grazie, Verdena, per aver tenuto quell'arpeggino di synth, all'inizio. Che poi mima un fiato mediterraneo e i Verdena interpretano la festa come un sabba allucinato anni Settanta, acido e maligno, muori e delay. Inzuppato nei fuzz, con i semitoni che significano blues e significano cose straniere e sinistre.
Alberto gracchia filtrato. Compaiono chitarre acustice, vibrafoni, cori femminili. Una festa psichedelica, dicevo.
La struttura si attorciglia, sembra andare da qualche parte, torna lì. Il campanaccio sulla batteria accompagna, sempre molto gradito.

Tanca e Carne sono due canzoni di Iosonouncane. Le trovi sull'album Die, che in inglese è morire e in sardo è la giornata. È uscito l'anno scorso e pare sia uno dei migliori dischi italiani degli ultimi anni, per chi stabilisce 'ste gerarchie; c'è chi dice addirittura il migliore. Parla della natura e della natura umana.
Tanca era una marcia claustrofobica, con i suoni gutturali di bassi umani. Qui diventa violenta.
Carne era un canto epico mediterraneo di sintetizzatori. Qui diventa acido, complesso, allucinatorio.

I Verdena sono di Bergamo e quindi che ne sanno. Però sono stati bravi.

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Dicono che Jacopo Incani, Iosonouncane, col suo ultimo disco si sia dato alla musica elettronica sperimentale, che sia un innovatore non solo per la scena italiana, ma per quella in-ter-na-zio-na-le, zio. Sentono un beat, un riverbero, un minimo di stratificazione, e subito vai ched'è shperimentale.

Ma cosa sperimentale. Incani ha già dato prova di essere un cantautore istituzionalissimo, con lo sguardo critico di Faust'O, le alte spinte di Fortis, e ora più che mai qualcosa di Battisti che magari vediamo dopo. Lo sentite sperimentale perché ha recentemente preso una piega tematica legata a sonorità ancestrali, folkloristiche, ma le ha aggiornate a tendenze nuove, che neanche sono nuove nuove. Cose che gli Animal Collective e i Flaming Lips comunque frate' questa roba l'hanno già fatta prima. Ma pure i Radiohead eh. In tal senso, più che innovato, ha svecchiato una scena agonizzante e ammuffita, condannata a circuiti di distribuzione esausti e pacchiani.
Die, con i synth e con i beat, ha restituito capacità d'acchiappo anche commerciale, appeal, a un mondo potenzialmente interessante che però porca puttana era rimasto fermo ai watussi gli alitissimi negri; a Creuza de ma, come punto di riferimento. Poi a Jovanotti che vuole cancellare il debito. Poi ai Negrita che rotolano affanculo.
Prima erano cose etniche da mezzo hippie, e da mamme e babbi professionisti che erano stati mezzo hippie da giovani: ora, possono tornare a essere cose coinvolgenti, che ti dicono qualcosa e ci balli su nei locali. E magari i dischi non hanno più grafiche oscene tribali, e pure i musicisti forse si danno una svegliata.
Stormi passa nei dj set. Ai concerti di Iosonouncane c'è anche gente che non puzza. Auspico che Die abbia indicato una nuova via.

Ma quando riprende questi due pezzi nuovi dei Verdena, che negli Endkadenz hanno lavorato molto sul suono, sulla struttura e sulla ricerca del diverso, pure riuscendo a fare cose belline, Iosonouncane suona ancora sperimentale, innovativo e tutto? No.
Però non voglio dire che abbia fatto un brutto lavoro.

La sua cover di Diluvio mi piace. Evidenzia i tratti gospel della ballata pianistica originale. E il gospel, se te lo sai gestire, è una di quelle cose che chiamano l'emozione. Diluvio era già bella, ma la produzione la mortificava un po', e soprattutto ne mortificava l'interpretazione vocale. Jacopo Incani canta, e molto. Il doppiato ottava alta-ottava bassa qui funziona bello, il timbro di Incani si presta benissimo e la canzone, nei suoi tratti fondamentali, viene fuori pure valorizzata.
L'orchestrazione elettronica pesante conferisce alla sacralità del tutto i connotati del viaggione. La sacralità è pure ribadita e tirata all'estremo, tra cori, echi, arpeggiatori e quella specie di organo con l'effetto voce che suona vecchio come la morte ma incredibilmente funziona. Tutto riesce senza cascare nella stucchevolezza, e qui non era facile.
Qui, come ogni tanto in Die, c'è la batteria minimale: charleston perlopiù assente, colpi di cassa sottintesi, rullante isolato. Se fai una ballata, nel duemilasedici, queste cose le devi considerare.

Ma quindi Iosonouncane, su uno split da quattro pezzi, ha piazzato una specie di mini concept sugli Endkadenz. Sì che l'arpeggiatore torna proprio uguale su Identikit, anche quel wuh-uh femminile. Identikit è spettacolare anche così. C'è sotto un beat tipo jungle che imita le percussioni dell'originale, poi arrivano le percussioni vere, poi entrano i clap, le maracas, poi la batteria che salta colpi, c'è un synth fuzzonissimo sotto e la voce della madonna col riverbero stadio. Poi c'è un sintetizzatore cafone degli anni or sono, poi torna il jungle beat, le voci crescono e poi si ferma tutto e ancora orchestrazioni elettroniche in vecchio stile ed è tutto molto intenso e suggestivo.
Le sanno fare queste code strumentali psichedeliche; non c'è un cazzo da dire.

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Iosonouncane e i Verdena hanno in comune una recente scuffia per Battisti e un modo di trattare la sintassi del verso e del periodo che agevola la musicalità, piuttosto che l'intelligiblità del testo.
Ora fanno un po' di date insieme, e da parte dei Verdena tutta l'operazione mi sembra un bel gesto. Iosonouncane merita tutto e qui ringrazia e lo ribadisce. Ringraziamo pure noi, che dopo Die ci chiedevamo che fine facesse, e ora scopriamo che l'intenzione è probabilmente quella di restare fedele al suono compattissimo della sua ultima svolta.
Puoi sentire nel disco il bel clima tra loro, e pure la reciproca stima, ché per degli arrangiamenti così curati, delle interpretazioni così evidentemente sentite, ci vuole quell'impegno che tradisce una grande passione.

Bravi tutti.

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