Provate a immaginare, se ci riuscite.

Un gruppo capace di coniugare l'urgenza comunicativa del primo punk inglese con l'energia mutuata dal rock'n'roll delle origini, diciamo dunque Buzzcocks o Adverts con i Clash di London Calling. Di mettere assieme il torrido beat di ascendenza mod con una ricercatezza pop non priva di sfaccettature quasi-glam, diciamo dunque i primissimi Jam con i Magazine, figli illegittimi dei Roxy Music sotto anfetamine. Di cavalcare la tigre dell'irruenza espressiva facendola evolvere in una forma-canzone pop ricercata e col dono del ben dell'intelletto, cimento che in quegli anni riusciva così bene in madrepatria solo agli XTC del genietto Andy Partridge e di là dall'Oceano, poco prima e sotto la supervisione di John Cale, ai Modern Lovers di messer Jonathan Richman.

Ora, se un gruppo così fosse davvero esistito, quali tracce potremmo rinvenirne nel Grande Libro della Musica circa-settantasettina? Minimo un capitolo fondamentale, vero? Falso, se foste parecchio fortunati ne leggerete per un paragrafo massimo due, ma è più realistico pensare che lo rinverrete soltanto in una piccola noterella a piè di pagina. E soltanto qualche vecchio reduce di quei giorni, sentendo pronunciare il nome dei Subway Sect e del loro luogotenente bristoliano Vic Napper, in arte Godard - colto e citazionista, l'amico... -, si illuminerà d'immenso con occhi ridenti di felicità al ricordo di una stella cadente ma nonostante tutto tra le più brillanti dell'Orsa Minore punk. Facciamo giustizia?

Eppure l'inizio mica era stato di basso profilo. Londra 1976, il "giro" giusto, quello di McLaren per intenderci, un nome che spesso e volentieri spicca in cartellone al 100 Club di Oxford Street insieme a quello di Sex Pistols, di una Suzie-non ancora-Siouxsie e dei Clash. Con questi ultimi, poi, l'anno seguente si va pure a scorrazzare insieme per il Regno Unito, in quella bazzecola di happening denominato White Riot Tour. Tutto ciò, nonostante un'immagine pubblica che definire "ordinaria" fa sì che, rimanendo nell'ambito, gente come i Wire possano essere considerati in loro confronto alla stregua dei Kiss. I vostri impiegati dell'anagrafe preferiti. O, meglio, i vostri postini, giacché quella fu l'attività che procurò al nostro Victor il pane quotidiano poco dopo la metà degli anni Ottanta. Proprio per questo, diciamola tutta: come e forse più che per molti altri di quella nidiata, per Vic e compagnia il punk fu fin da subito lo "scenario", la "situazione", contesto in cui calare le molteplici sfaccettature del loro spettro. Andare oltre, e rapidamente, questa la parola d'ordine. Un singolo via l'altro. Nel mezzo, la solita vicenda - questa sì, moooolto punk - di scazzi, album "perduti", rotture, incomprensioni e incomprensibili svolte.

Siccome quello che doveva essere il primo album misteriosamente scomparve alle viste per trent'anni venendo pubblicato alla fine per terzo, che il secondo è in realtà il primo, ma è poco più che una raccogliticcia collezione di brani assemblati da un gruppo che di fatto già non esiste più, ecco perché l'apparizione ad inizio 1985 di questa retrospettiva del meglio del loro meglio fu accolta da chi scrive come manna dal cielo.

Partenza al fulmicotone. "Nobody's Scared" e "Don't Split It" sono i Ramones che attraversano l'Atlantico non per aiutare i Pistols a diffondere il nuovo Verbo, ma per far conoscere ai giovani inglesi con la cresta le canzoni del primo, leggendario album dei Modern Lovers, suonandole però come le suonerebbero gli Stranglers di "Rattus Norvegicus". Oppure, sia infilando sghembe e ruvide cantilene come "Parallel Lines", sia adrenaliniche e abrasive cavalcate come "Double Negative", paiono mettere in guardia l'ignaro ascoltatore che con loro "It's NOT only punk'n'roll, but I like it". Sempre scettici? E allora giù con "Ambition", polluzione pop-punk dal ritmo danzereccio, accompagnata da tastierina lasciva e dal cantato mai così glam di Godard, utile per comprendere il perché Bowie e Bryan Ferry vadano considerati padri putativi di molto di ciò che avvenne dopo il ‘77. Oppure, "Stool Pidgeon", solluchero pop al calor bianco che Pete Shelley ha sempre e solo potuto sognare per i suoi Buzzcocks.

Certo, se si va in tour coi Clash non si può non avere nel proprio carnet innodie punk del calibro di "Chain Smoking", in grado di sfidare sul loro medesimo terreno Strummer & Jones. Ma allo stesso tempo, alla maniera dei Dr. Feelgood, si vuole provare ad essere baldi eroi pub-rock per il sottoproletariato britannico dal gomito alto, facendosi accompagnare nientemeno che da un piano boogie in "Rock And Roll Even". Poi, fallisci tu che fallisco io, le ustioni di quei primi, formidabili anni vengono curate dalla emolliente smania di un leader che prova a lasciarsi dietro i seggiolini sporchi e maleodoranti della metropolitana dei sobborghi in cambio di quelli comodi e vellutati dei teatri a la page. Quello del commiato da un gruppo oramai fantasma sarà dunque un Godard che aspira a fare il crooner, come capiterà anche ad altri eroi collaterali di quella gloriosa stagione quali Kevin Rowland o Edwyn Collins. E se l'anello di congiunzione tra passato e futuro risplende ancora fulgido in una "Watching The Devil" che blueseggia rockeggiando come ai Violent Femmes non riuscì mai, "Spring Is Grey", con il suo melò alla Pulp, e "Stop That Girl", con coretti e contrappunti di fisarmonica (!) certificano definitivamente che, come dicevano spesso i nostri vecchi, "si nasce incendiari e si muore pompieri".

Ma, non so voi, quando il materiale è davvero infiammabile ed il fuoco sa essere sul serio di quelli indimenticabili, sarà sempre assai divertente poterci ogni tanto scherzare assieme. Anche se fatuo.

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