Il vecchio coniglietto marrone di Daisy viene ancora nutrito e tenuto in casa dalla anziana madre. Ella cova la speranza di rivedere un giorno la figlia scomparsa nel nulla.

Bud, volto tetro e malinconico a livelli di suicidio, inizia il suo viaggio in auto; destinazione California: non è più tempo di gare motociclistiche, meglio risolvere la controversia interiore che lo sta lacerando.

The Brown Bunny si presenta come un road movie che di road movie ha pressocchè nulla. Sebbene la colonna sonora (curata dal fantastico sciamano John Frusciante) sia di una splendente ed impeccabile ricercatezza, ciò che entrerà prepotentemente nelle viscere dello spettatore sono i lunghi ed interminabili silenzi. Come foste sul sedile passeggero del protagonista a osservarlo piangere disperatamente e cercare improbabili compagnie femminili (puntualmente scaricate), noterete che proprio il silenzio urbano domina sulla pellicola rendendo il film meno teatrale ma ricco di naturalezza indie.

Dopo la presentazione al festival di Cannes del 2003, il cinefilo Roger Ebert espresse le proprie critiche negative alla stampa definendo The Brown Bunny il peggior film mai visto in vita sua, una porcata. La personalità di Vincent Gallo (regista, attore protagonista, tecnico delle riprese) ormai celebre sia nei circuiti indipendenti che ad Hollywood, fece si che tra i due nascesse una guerra di insulti botta e risposta alquanto pesante (Gallo gli augurò persino il cancro) che però terminò con la nascita di un’amicizia, dopo che Ebert ebbe modo di visionare la versione tagliata e definitiva del film con conseguente cambio d’opinione.

Ma allora, perché tanto scalpore e perché tante critiche? La risposta è d’attribuire ad una singola scena che ha fatto e continua a far discutere. Una scena che il sottoscritto ritiene azzeccata e prepotentemente funzionale alla trama. Si svolge sul finale e vede come protagonisti i due principali attori del set ovvero Gallo (Bud) e Chlöe Sevigny (Daisy).

Devo onestamente affermare che la superficie nasconde bene il marasma di emozioni che invece il finale della pellicola racchiude. Forse il problema (l’unico secondo me) di The Brown Bunny è proprio il fatto che come corto avrebbe funzionato molto di più. L’efficacia di certi dialoghi viene presentata solamente dopo settanta minuti di visione.

Consiglio a chi interessato alla pellicola di non leggere altre recensioni sul web a proposito di essa (causa spoiler ovviamente) poiché non ne troverete una che non ne rovini la suspance, con tutto il rispetto per i “predecessori”.

Buffalo ’66 del 1998 e The Brown Bunny del 2003 sono le più famose opere di Vincent Gallo, un tipo arrogante e schietto che si è fatto anche dei nemici; egli non nasconde emozione alcuna agli interlocutori (basti vedere su YouTube l’interessante intervista da Howard Stern).

Nella mia prossima recensione sulla colonna sonora citata sopra, mi soffermerò in maniera più esaustiva sul mood e sul rapporto tra le ambientazioni e i vecchi brani scelti per caratterizzare la pellicola.

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